Quando il mutuo si trasforma in atto a titolo gratuito

Con una recente sentenza la Corte di Cassazione ha fatto chiarezza sulla controversa questione della natura, onerosa o gratuita, delle operazioni bancarie consistenti nella erogazione di un mutuo ipotecario destinato ad estinguere un preesistente finanziamento concesso dal medesimo istituto mutuante e non, invece, a creare un’effettiva disponibilità finanziaria nel mutuatario.

La questione è particolarmente interessante perché, a differenza di quelle in precedenza analizzate dalla giurisprudenza di legittimità, essa non ha ad oggetto un negozio che realizza la funzione di munire di garanzia reale un credito che originariamente era chirografario.

Nel caso di specie, infatti, la banca aveva inizialmente concesso alla cliente un mutuo fondiario, garantito dalla società mutuante attraverso la concessione di un’ipoteca volontaria su beni di sua proprietà. Successivamente, le parti avevano negoziato un secondo accordo sulla base del quale l’istituto di credito aveva erogato un ulteriore finanziamento alla società mutuante, di importo pari al precedente, anch’esso garantito da ipoteca sugli stessi beni. Le somme così ricevute a prestito venivano utilizzate dalla cliente per estinguere il preesistente rapporto obbligatorio.

La circostanza che già il primo rapporto di mutuo fosse assistito da una garanzia reale, dunque, ha spinto la Suprema Corte ad operare una esaustiva ricostruzione dei principi espressi sul tema dalla giurisprudenza di legittimità. Non avrebbe potuto affermarsi, infatti, “che l’ipoteca risulta “creata per munire di garanzia esposizioni pregresse” che ne erano prive”, circostanza dalla quale discende – secondo giurisprudenza consolidata – la natura gratuita dell’atto costitutivo della garanzia stessa (cfr. Cass. Civ., Sez. I, sent. 9 novembre 2018, n. 28802; Cass. Civ., Sez. I, sent. 19 aprile 2016, n. 7745; Cass. Civ., Sez. I, ord. 21 febbraio 2018, n. 4202; Cass. Civ., Sez. I, ord. 25 luglio 2018, n. 19746; Cass. Civ., Sez. I, ord. 31 agosto 2018, n. 21535)”.

Innanzitutto, il Collegio ha precisato che ““l’erogazione di un mutuo ipotecario non destinato a creare un’effettiva disponibilità nel mutuatario, già debitore in virtù di un rapporto obbligatorio non assistito da garanzia reale, non integra necessariamente né le fattispecie della simulazione del mutuo (con dissimulazione della concessione di una garanzia per un debito preesistente) né quella della novazione (con la sostituzione del preesistente debito chirografario con un debito garantito)”, giacché “normalmente integra una fattispecie di procedimento negoziale indiretto, nel cui ambito il mutuo ipotecario viene erogato realmente e viene utilizzato per l’estinzione del precedente debito chirografario” (così, in motivazione, Cass. Sez. 1, sent. 29 febbraio 2016, n. 3955, Rv. 638838- 01)”.

La Corte ha, poi, posto l’accento sulla necessità di tenere distinte queste particolari operazioni negoziali da quelle di  “rifinanziamento del debitore”, che consentono di rinegoziare i finanziamenti bancari anche nei riguardi di debiti scaduti, attraverso il “ricorso al credito come strumento di ristrutturazione del debito” (alle quali si rivolgono gli artt. 182-bis e 182-quater della L. Fall.).

Secondo i Giudici, “l’elemento caratteristico di siffatto tipo di ricorso al credito è che segua effettivamente, poi, l’erogazione di nuova liquidità da parte della banca, funzionale non solo (e non tanto), quindi, all’azzeramento della preesistente esposizione debitoria”, ma soprattutto “a rimodulare, per il tramite di nuove condizioni negoziali – per esempio afferenti il tasso di interesse – o rinnovate tempistiche dei pagamenti, l’assetto complessivo del debito nel contesto di una nuova veste giuridico-economica degli anteriori rapporti”.

Nel caso concreto, la Corte ha evidenziato come il secondo finanziamento concluso tra le parti non presentasse “nuove condizioni negoziali” – né sotto il profilo dei tassi di interesse né con riguardo alle modalità di pagamento – rispetto all’originario contratto di mutuo fondiario, potendosi soltanto ravvisare una “semplice dilazione del termine di restituzione della somma mutuata”.

Sulla scorta di questo rilievo ha, ulteriormente, chiarito che “laddove non si ravvisino profili di erogazione di “nuova” liquidità, piuttosto che assistersi a “spostamenti di danaro, trasferimenti patrimoniali e consegne, il “ripianamento” di un debito a mezzo di nuovo “credito”, che la banca già creditrice metta in opera con il proprio cliente, sostanzia propriamente un’operazione di natura contabile”, ovvero “con una coppia di poste nel conto corrente – una in “dare”, l’altra in “avere” – per l’appunto intesa a dare corpo ed espressione a una simile dimensione”, confermando l’orientamento già assunto dalla I sezione Civile della Suprema Corte, con l’ordinanza n. 20896 del 5 agosto 2019.

Ritenendo, dunque, che l’operazione negoziale concretamente posta in essere avesse natura di atto a titolo gratuito, la Cassazione ha, conseguentemente, affermato che – ai fini dell’esercizio dell’azione revocatoria ex art. 2901 c.c. – è del tutto indifferente lo stato soggettivo del terzo beneficiario.

Alla luce di quanto esposto, la Suprema Corte ha accolto il ricorso, cassando il provvedimento del Tribunale di Roma che – nell’esaminare la revocatoria fatta valere dalla curatela fallimentare in relazione alla sola costituzione della garanzia reale – aveva ritenuto dirimente lo stato soggettivo del terzo, in violazione del principio secondo il quale “l’azione revocatoria ordinaria di atti a titolo gratuito non postula che il pregiudizio arrecato alle ragioni del creditore sia conosciuto, oltre che dal debitore, anche dal terzo beneficiario, il quale ha comunque acquisito un vantaggio senza un corrispondente sacrificio e, quindi, ben può vedere il proprio interesse posposto a quello del creditore”.

Cass., Sez. III, Sent., 8 aprile 2020, n. 7740

Federico Bevilacqua – f.bevilacqua@lascalaw.com

fonte: IUS

La nullita’ totale delle fidejussioni conformi allo schema ABI

La Corte d’Appello di Bari, con la recentissima sentenza n. 45 del 15/01/2020, ha analizzato in maniera estremamente incisiva le varie questioni sottese al tema delle fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI illegittimo, sottolineando, peraltro, la nullità totale delle stesse.

La Corte ha, in primo luogo, confermato il diritto di tutti (sia che si tratti di imprenditori, che di consumatori o di altri soggetti) a sollevare l’eccezione di nullità, per violazione della normativa antitrust, delle fideiussioni redatte secondo lo schema ABI.

I giudici d’Appello, invero, hanno sottolineato che “la disciplina dettata dalla legge del 10 ottobre 1990 n. 287, tutelando la libertà di concorrenza, ha come destinatari tutti i partecipanti al mercato, imprenditori come consumatori, in quanto potenzialmente portatori di un interesse alla conservazione del suo carattere competitivo”.

Il suddetto interesse sussiste, senz’altro, in capo a “coloro che stipulino un contratto che costituisca lo sbocco di un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, i quali subiscano un evidente pregiudizio in conseguenza di quell’intesa, in termini di restrizione, se non di vera e propria elusione, del diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza”, a prescindere dalla qualità di “consumatori” di tali soggetti.

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, peraltro, avevano già sancito tale principio con la sentenza n. 2207/2005 stabilendo che “la legge ‘antitrust’ 10 ottobre 1990 n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprenditori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto offerto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza e, dall’altro, che il c.d. contratto ‘a valle’ costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti”.

La Corte territoriale di Bari, inoltre, ha confermato il principio, già affermato dalla Cassazione, concernente la nullità del patto fideiussorio concluso in conformità ad un’intesa restrittiva della concorrenza (V. sul punto “La Cassazione si ripronuncia sulla nullità assoluta delle fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI vietato”https://www.bancheepoteri.it/2019/06/03/la-cassazione-si-ripronuncia-sulla-nullita-assoluta-delle-fideiussioni-omnibus-conformi-allo-schema-abi-vietato/).

Com’è noto, lo schema predisposto dall’ABI è stato dichiarato nullo dalla Banca d’Italia con provvedimento n. 55 del 2 maggio 2005, perché contente clausole di “reviviscenza” in deroga all’art. 1957 c.c. e di “sopravvivenza” lesive della concorrenza, ai sensi dell’art. 2, comma 2, della legge Antitrust, cioè della legge n. 287/1990 (V. “La Nullità Assoluta delle Fideiussioni Omnibus” https://www.bancheepoteri.it/2019/05/02/la-nullita-assoluta-delle-fideiussioni-omnibus/)

Per giunta, la Suprema Corte, già nel 2017, con l’ordinanza n. 29810 del 12 dicembre, aveva stabilito che, “a prescindere dalla anteriorità del patto fideiussorio rispetto all’accertamento dell’illiceità dell’intesa” da parte della Banca d’Italia con il provvedimento del 2 maggio 2005, quel patto va dichiarato nullo “ogni qual volta il contratto di fideiussione costituisca l’applicazione del suddetto schema ABI”, e ciò in virtù del fatto che “se la violazione “a monte” è stata consumata anteriormente alla negoziazione “a valle”, l’illecito anticoncorrenziale consumatosi prima della stipula della fideiussione oggetto della presente controversia non può che travolgere il negozio concluso “a valle”, per la violazione dei principi e delle disposizioni regolative della materia (a cominciare dall’art. 2 legge antitrust)”(Cass. ord. n. 29810/2017).

Tale principio, peraltro, è stato ribadito con la più recente sentenza n. 13846 del 22 maggio 2019, secondo cui “ai fini dell’illecito concorrenziale di cui alla l. n. 287 del 1990, art. 2, rilevano tutti i contratti che costituiscano applicazione di intese illecite, anche se conclusi in epoca anteriore all’accertamento della loro illiceità da parte dell’autorità indipendente preposta alla regolazione di quel mercato”: ciò che rileva è solo che gli “artt. 2, 6 e 8 […] costituiscano lo sbocco dell’intesa vietata”, ovvero che inserendo tali disposizioni nei contratti (a valle), si attuano gli effetti della condotta illecita.

Secondo gli assunti della Cassazione, pertanto, “non avrebbe alcun senso affermare la nullità dell’intesa e, allo stesso tempo, la validità dei contratti stipulati in sua esecuzione”, come sostiene – appunto – anche la Corte d’Appello di Bari.

Invero, i giudici d’Appello ricordano una recente pronuncia dell’ABF di Milano del 4 luglio 2019, in cui è stato stabilito che “la diversa soluzione, che si limiti ad eliminare, con la comminatoria di nullità, il vincolo giuridico nascente dall’intesa illecita”, ma lasci sopravvivere intatti tutti gli effetti che l’intesa ha prodotto sul mercato in termini di contratti stipulati a valle dell’intesa stessa, “appare sicuramente molto poco coerente con gli obiettivi di difese e promozione del mercato concorrenziale che sono propri del diritto antitrust”.

La Corte d’Appello di Bari, dunque, conclude sancendo la nullità assoluta delle fideiussioni omnibus conformi allo schema ABI, stante il carattere essenziale delle clausole riportate negli artt. 2, 6 e 8 del detto schema, sicché il vizio delle stesse determina la nullità dell’intero contratto ex art. 1419 c.c.

Ai sensi dell’art. 1419 c.c., invero, la nullità parziale di un contratto o la nullità di singole clausole importa la nullità dell’intero contratto, se risulta che i contraenti non lo avrebbero concluso senza quella parte del suo contenuto che è colpita da nullità.

Orbene, così come stabilisce l’ABF Milano nel provvedimento del 4 Luglio 2019 sopra citato, “la domanda che, nel caso di specie, occorre porsi è se in un mercato ragionevolmente concorrenziale (non falsato dalla presenza dell’intesa nulla) i contraenti avrebbero raggiunto ugualmente l’accordo sul contenuto del contratto pur mutilato delle clausole in questione”.

Secondo la Corte d’Appello di Bari, la risposta a tal quesito è “inevitabilmente negativa, trattandosi di clausole che intanto sono state giudicate dalla Banca d’Italia lesive della concorrenza in quanto incidono su aspetti essenziali del rapporto contrattuale”.

Segnatamente, la Banca d’Italia ha vietato tali clausole proprio perché queste, “imponendo al garante oneri diversi da quelli stabiliti dalle norme del codice civile, quali la rinuncia ai termini di cui all’art. 1957 c.c. (art. 6) e la permanenza dell’obbligazione fideiussoria a fronte delle vicende estintive e delle cause di invalidità che possono riguardare il pagamento del debitore o la stessa obbligazione principale garantita (artt. 2 e 8), alterano significativamente l’assetto equilibrato degli interessi alla base della disciplina civilistica della fideiussione”.

La stessa ABI, infatti, nel difendere il mantenimento di suddette clausole, sostiene che si tratti di disposizioni in assenza delle quali non potrebbe attuarsi la funzione stessa della fideiussione omnibus, ovvero quella di “garantire alla banca l’effetto solutorio definitivo”, che “non potrebbe dirsi compiutamente realizzato qualora il pagamento del debitore fosse annullato, dichiarato inefficace o revocato” (provv. Banca d’Italia n. 55/05).

La funzione della fideiussione omnibus, pertanto, “verrebbe meno se le clausole più significative fossero eliminate dallo schema” (provv. Banca d’Italia n. 55/05), e ciò inevitabilmente conduce alla deduzione logica che la banca, senza le clausole nulle, non avrebbe accettato la fideiussione e, conseguentemente, il contratto non sarebbe stato concluso in assenza delle clausole stesse.

In virtù del suddetto assunto, dunque, la Corte d’Appello di Bari ritiene sussistente la nullità assoluta delle fideiussioni omnibusa causa del carattere essenziale proprio delle clausole nulle previste dallo schema ABI, illegittimo.

In conclusione, la sentenza in esame risulta un’importante pronuncia in materia di fideiussioni schema ABI, dal momento che chiarisce varie questioni sottese alla problematica affrontata e ribadisce con compiuta ed esauriente motivazione la nullità assoluta delle fideiussioni “a valle”, facendo ben sperare che anche altri giudici di merito si conformino a tale precedente!

Fonte: Bancheepotere.it

Trib. Teramo: la penale di estinzione anticipata rileva ai fini usura solo perché promessa

Per uniforme insegnamento della S.C., ai sensi degli artt.644 c.p. e 1815, secondo comma, c.c., e della L. n.24 del 2001 di conversione del D.L. n.394/2000, si intendono usurari gli interessi, commissioni, le spese che superino il limite stabilito dalla legge nel momento in cui sono promessi o comunque convenuti, a qualunque titolo, indipendentemente dal loro pagamento, con la conseguenza che ogni verifica del superamento o meno del limite legale va effettuata ex ante sulla base di quanto pattuito al momento della stipulazione del contratto.

Il costo promesso per l’estinzione anticipata va computato nel riscontro dell’usurarietà essendo un onere connesso al finanziamento che il cliente ha promesso di pagare: pur non disconoscendosi le differenti caratteristiche giuridiche ed odontologiche ravvisabili tra  interessi corrispettivi, interessi moratori, commissione per anticipata estinzione, “costi fissi” legati all’erogazione del credito, penali, ecc. non può che giungersi alla conclusione che, in ogni caso, si rientra sempre nell’alveo degli oneri connessi alla erogazione del credito ovvero nell’alveo di somme pattuite a titolo di “interessi o altri vantaggi” ex art.644 c.p. ( cfr. Tribunale di Ascoli Piceno sentenza n. 37 del 24/01/2019).

Non appare condivisibile la tesi per la quale il costo per l’anticipata estinzione vada preso in considerazione ai fini del calcolo del TEG solo se effettivamente corrisposto, altrimenti sarebbe valorizzato solo il “dare” e completamente pretermesso il “promettere” ( cfr. Tribunale di Fermo sentenza n.172 del 1/03/2018) atteso che, al momento che al momento della conclusione del contratto, non è possibile conoscere preventivamente l’andamento del rapporto.

Come chiarito dalle S.U. , 19 ottobre 2017, n.24675, Est. De Chiara, “una sanzione (che implica il divieto) è contenuta, per l’esattezza, anche nell’art.1855,secondo comma, cod. civ.- pure oggetto dell’interpretazione autentica di cui si discute – il quale però presuppone una nozione di interessi usurari definita altrove, ossia, di nuovo, nella norma penale integrata dal meccanismo previsto dalla L. n.108,96. Sarebbe pertanto impossibile operare la qualificazione di un tasso come usurario senza fare applicazione dell’art. 644 cp “ , con ciò significando che, qualunque sia lo scenario pattuito che manda il contratto in usura solo perché promesso, la conseguenza sanzionatoria ai sensi dell’art.1815, secondo comma, c.c. è la non debenza di tutto ciò che rientra nel perimetro del TAEG secondo la nozione lata di interesse descritta dall’art. 644 c.p. (in tal senso anche Collegio di Coordinamento dell’ABF del 16/05/2018 e Tribunale di Campobasso sentenza n.795 del 29/11/2018), spettando al mutuante solo il capitale erogato.

Come chiarito da Cass. Civ. Sez. III, 30 ottobre 2018, n.27442, l’usurarietà degli interessi moratori deve essere accertata senza alcuna maggiorazione.

La mancata indicazione nel contratto di mutuo del T.A.E. come imposto ratione temporis dall’art. 6 della Delibera CIRC del 9/02/2000, o la non univoca indicazione del tasso di interesse, o la non univoca indicazione del parametro Euribor di riferimento, o l’inesatta corrispondenza tra TAN indicato in contratto ed il TAN effettivamente applicato, comportano l’applicazione in via sostitutiva dei tassi BOT ex art. 117 TUB in luogo dei tassi convenzionali. (Dario Nardone) (Emanuele Argento) (riproduzione riservata)

Fonte:

www.ilcaso.it

 

Il Tribunale di Massa censura il fenomeno anatocistico nel piano di ammortamento ‘alla francese’ o ‘a rata costante’

Le espressioni “ammortamento alla francese” o “a rata costante” o “a capitale crescente e interessi decrescenti” non valgono ad esplicitare le modalità di funzionamento del piano, ai fini del controllo di legalità, in difetto di specificazione del regime finanziario e del criterio di calcolo degli interessi.

Il regime finanziario della capitalizzazione composta, adottato nella quasi totalità dei mutui predisposti con ammortamento alla francese concessi dagli istituti di credito, prevede l’attualizzazione dei flussi finanziari sulla base di una funzione di matematica esponenziale ed è caratterizzato da leggi finanziarie dotati della proprietà della scindibilità (a differenza di quello della capitalizzazione semplice, fondato su leggi additive), in forza delle quali la sua adozione comporta necessariamente (fatta eccezione per le ipotesi di scuola di mutuo uniperiodale o di pattuizione di tasso d’interesse nullo, in concreto non configurabili nella casistica giudiziaria) un effetto anatocistico, in virtù della produzione di interessi su interessi precedentemente maturati; e ciò in quanto, per effetto dell’applicazione di tale regime, gli interessi precedentemente maturati, a causa della loro capitalizzazione nel debito residuo, sono causa di ulteriori interessi.

Deve ritenersi che il divieto di anatocismo non attenga esclusivamente all’accordo preventivo che preveda direttamente la produzione di interessi su interessi, ma altresì a quelli – anch’essi in ipotesi riconducibili al momento genetico contratto (e quindi integranti una convenzione, ai sensi dell’art. 1283 c.c.) – che producano comunque, sotto il profilo economico, il medesimo effetto della produzione di interessi su interessi. Ciò che rileva, a ben vedere, è l’identità degli effetti economico-finanziari delle due modalità operative suindicate, comportando entrambe, anche in ragione del computo degli interessi sul capitale residuo (anzichè su quello in scadenza), un valore della rata di ammortamento superiore rispetto a quello che si presenterebbe adottando il regime di capitalizzazione semplice.

La verifica dell’usura deve essere condotta con riferimento unitario agli interessi corrispettivi e di mora, senza il ricorso ad una “fantomatica” soglia usuraria specifica per gli interessi moratori, determinando il costo complessivo del finanziamento nel “worst case” (scenario più oneroso per il soggetto finanziato). Se tale costo eccede il limite previsto dalla legge 108/96 alla stipula del contratto, il finanziamento deve ritenersi a titolo gratuito in applicazione della sanzione ex art. 1815 c.c.

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Nostre note

In dottrina, senza alcuna pretesa di esaustività, propendono per la capitalizzazione composta: R. MARCELLI, L’ammortamento alla francese. Matematica e diritto: quando la scienza viene piegata a negar se stessa, in Ilcaso.it, 13 novembre 2018, ed anche G. OLIVIERI, P. FERSINI, Sull'”anatocismo” nell’ammortamento francese”, in Banche e banchieri, 2015, n.2, 134 ss. La considerazione spesso utilizzata per affermare che nell’ammortamento alla francese non esiste il fenomeno del calcolo degli interessi sugli interessi già maturati è che, in ciascun periodo, la quota interessi è calcolata sul debito residuo, argomentando che di fatto si “pagano” gli interessi solo sul capitale ancora da restituire ed escludendo la possibilità di calcolo degli interessi sulla componente di interessi già corrisposta. Tale affermazione, osservano G. OLIVIERI, P. FERSINI, cit., 141, “ignora il fatto che il debito residuo è funzione della quota capitale che a sua volta dipende dal calcolo della rata costante, che ricordiamo è calcolata nel regime finanziario della capitalizzazione composta“. Anche G. COLANGELO, Interesse semplice, interesse composto e ammortamento alla francese, in Foro it., 2015, n.11, V, 469 ss., rileva che numerose sono le sentenze che stabiliscono, sulla scorta di ciò che asseverano i vari c.t.u., che l’ammortamento alla francese è regolato ad interesse semplice. Alla base di queste decisioni vi è a parere dell’A., “la fuorviante constatazione che alla scadenza di ciascuna rata l’interesse è calcolato in modo semplice sul capitale residuo”. In realtà, sottolinea G. COLANGELO, “i testi di matematica finanziaria”non trattano che dell’interesse composto, tutti affermano che l’ammortamento francese è regolato da quest’ultima legge“. In tal senso, sono citate varie monografie, tra cui: A. CASANO, Elementi di algebra, Palermo, II ed., 1845, 277; M. CALIRI, Matematica finanziaria, Torino, 2001, 169 e 173; E. LEVI, in Corso di Matematica finanziaria e attuariale, Milano, 1964, 227; S. VIANELLI, A. GIANNONE Jr., Matematica finanziaria, Bologna, 1965, 125; F. CACCIAFESTA, Matematica finanziaria, Torino, 2006, 112. In argomento, vedasi anche L. SPAGNOLO, L’anatocismo mascherato, Edizioni Esperidi, 2014. In tema, vedasi anche Antonio Annibali, Carla Barracchini, Alessandro Annibali, Anatocismo e Ammortamento di Mutui alla Francese in Capitalizzazione Semplice, CreateSpace Independent Publishing Platform, 2016.

Di opinione contraria, M. RUTIGLIANO, L. FACCINCANI, Brevi note per riconoscere, “si spera definitivamente”, l’assenza di anatocismo nel mutuo con piano di ammortamento “alla francese”, in Banche e banchieri, 2017, n. 3, 333 ss.; V. SANGIOVANNI, Mutui bancari, ammortamento alla francese e nullità delle clausole sugli interessi per indeterminatezza, nota a Trib. civ., sez. impresa B, Milano, sentenza 30/10/2013, in Corr. giur., 2014, n. 8/9, p. 1105 ss. La stessa pronuncia è anche annotata da C. CAMARDI, Mutuo bancario con piano di ammortamento “alla francese”,nullità delle clausole sugli interessi e integrazione giudiziale, in Banca borsa, 2015, n. 1, II, 51 ss. Per una riflessione sulla matematica finanziaria degli ammortamenti, cfr. A. MANTOVI, G. TAGLIAVINI, Anatocismo e capitalizzazione annuale degli interessi, in Dirittobancario.it , Giugno 2015.

In giurisprudenza, riconoscono l’esistenza del fenomeno della capitalizzazione composta nell’ammortamento alla francese:

  • Trib. Napoli, sent.  n. 1558/2018, pubbl. il 13/02/2018, G.U., E. PASTORE ALINANTE;
  • Trib. Isernia, 28 luglio 2014, G.U., O. DE ANGELIS;
  • Trib. Ferrara, 5 Dicembre 2013, G.U., A. GHEDINI;
  • Trib. di Larino, Sez. di Termoli, sent. n. 119 del 17 aprile 2012, G.U., B. PREVIATI;
  • Trib. Bari, Sez. di Rutigliano, sent. n. 113 del 29 ottobre 2008, G.U., MASTRONARDI: “il tasso nominale di interesse pattuito letteralmente nel contratto di mutuo non si può volutamente maggiorare nel piano di ammortamento, né si può mascherare un artificioso incremento nel piano di ammortamento, poiché il calcolo d’interesse nel piano di ammortamento deve essere trasparente ed eseguito secondo le regole matematiche dell’interesse semplice. I contratti di mutuo per cui è causa sono mutui con rimborso frazionato, in cui alla banca, durante il rapporto, si restituisce ratealmente il capitale, originariamente prestato, prima della scadenza finale del mutuo stesso: i mutui de quibus vengono estinti con una serie di pagamenti effettuati dal debitore. La rata del mutuo con rimborso frazionato si è calcolata però nel caso in esame, con la formula dell’interesse composto, non prevista nella parte letterale del medesimo contratto, che comporta la crescita progressiva del costo, comprendendo di certo degli interessi anatocistici”.

Escludono l’esistenza di un meccanismo anatocistico, ex multis: Trib. Modena, 11 novembre 2014, G.U., A. RIMONDINI; Trib. Treviso 12 gennaio 2015, G.U., E. ROSSI; Trib. Venezia, 27 Novembre 2014, G.U., FIDANZIA; Trib. Torino, 17 settembre 2014, G.U., ASTUNI; Trib. Milano, 8 Marzo 2016, G.U., STEFANI;Trib. Milano 9 novembre 2017, G.U., NOBILI; Trib. Bergamo 25 luglio 2017, G.U., DEL GIUDICE ; Trib.Brescia 11 ottobre 2017; Trib. Ravenna 20 marzo 2018.

Si è anche rilevato che non sussiste ”anatocismo congenito” nel contratto di mutuo con piano di ammortamento alla francese, in quanto tale formula matematico-finanziaria “è coerente con il dettato dell’art.1194, comma 2 c.c.” perché la rata rimane costante, ma la quota di interessi, calcolata sul capitale residuo da rimborsare, diminuisce, mentre aumenta la quota capitale presente in ciascuna rata. (cfr. Trib. Milano, 09 Novembre 2017, G.U., V. NOBILI ; Trib. Roma, 11.10.2017, n. 19123 dell’11.10.2017, G.U., G.RUSSO)

In materia, l’ABF ha già avuto modo diverse volte di affrontare la questione chiarendo che il metodo alla francese non comporta di per sé un effetto anatocistico vietato dalla legge (cfr. ex multis, decisione del Collegio di Roma n. 277/16, che sul punto si riporta: “Riguardo al piano di ammortamento “alla francese”, questo Arbitro ha già precedentemente esaminato gli orientamenti della giurisprudenza di merito che hanno messo in dubbio la sua compatibilità con la disciplina dell’anatocismo dettata dall’art. 1283 c.c. e dall’art. 120 t.u.b. (decisione del Collegio di Roma, n. 367 del 2012). Conformemente a varia giurisprudenza di merito più recente, questo Arbitro è giunto alla conclusione che il piano di ammortamento “alla francese” non determini alcun tipo di anatocismo e che pertanto sia legittimo ( n. 2358 del 2014, n. 6769 del 2013, n. 1061 del 2012 e n. 3267 del 2012; decisione del Collegio di Napoli, n. 6703 del 2014; decisioni del Collegio di Milano, n. 2834 del 2015 e n. 1283 del 2015)”

 

Fonte: il caso.it

Usura : per la Cassazione è nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia

È nullo il patto col quale si convengano interessi convenzionali moratori che, alla data della stipula, eccedano il tasso soglia di cui all’art. 2 della I. 7.3.1996 n. 108, relativo al tipo di operazione cui accede il patto di interessi moratori convenzionali.

E’ questo il principio espresso da una recente ordinanza della Suprema Corte (Cassazione civile, sez. III, 30 Ottobre 2018, n. 27442. Est. Rossetti).

L’ordinanza rileva che poiché gli interessi possono essere pattuiti sia a titolo di corrispettivo della cessione d’un capitale (artt. 820, terzo comma c.c.; 1282 c.c., 1499 c.c.); sia a titolo della remunerazione d’una prestazione a pagamento differito (arg. ex art. 1714 c.c.); sia a titolo di mora (art. 1224 c.c.), la previsione secondo cui il giudizio di usurarietà possa riguardare gli interessi pattuiti “a qualunque titolo” rende palese che per la lettera della legge anche gli interessi di mora restano soggetti alle norme antiusura.

All’obiezione, propostasi in dottrina, secondo cui l’art. 644, comma primo, c.p., incriminando la sola dazione o promessa di interessi usurari, implicitamente limiterebbe il campo applicativo delle norme antiusura agli interessi corrispettivi, l’ordinanza non conferisce alcun pregio.

Se la corresponsione degli interessi di mora ha la funzione di tenere indenne il creditore della perduta possibilità di impiegare proficuamente il denaro dovutogli, anche gli interessi moratori costituiscono la remunerazione di un capitale, e rientrano nella previsione degli interessi “promessi o dovuti in corrispettivo di una prestazione in denaro”.

Interessi corrispettivi ed interessi convenzionali moratori sono ambedue soggetti al divieto di interessi usurari, “perché ambedue costituiscono la remunerazione d’un capitale di cui il creditore non ha goduto: nel primo caso volontariamente, nel secondo caso involontariamente”.

Tanto gli interessi compensativi, quanto quelli convenzionali moratori ristorano dunque, a parere della Suprema Corte, “il differimento nel tempo del godimento d’un capitale: essi differiscono dunque nella fonte (solo il contratto nel primo caso, il contratto e la mora nel secondo) e nella decorrenza (immediata per i primi, differita ed eventuale per i secondi), ma non nella funzione”.

Peraltro, aggiunge l’ordinanza, anche ad ammettere che gli interessi moratori abbiano lo scopo di risarcire il creditore, e quelli corrispettivi di ricompensarlo per il prestito d’un capitale, sul piano del diritto positivo, mancano sia norme espresse, sia plausibili ragioni giuridiche, che giustifichino un diverso trattamento dei due tipi di interessi quanto al contrasto dell’usura.

La pretesa diversità strutturale tra i due tipi di interesse, se pure non raramente affermata, costituisce un “aforisma scolastico”, non giustificata sul piano storico e sistematico. L’ampia formula degli artt. 644 c.p.; dell’art. 2 I. 108/96; dell’art. 1 d.l. 394/00, dimostrano, secondo questa prospettiva, “che la legge non consente distinzioni di sorta tra i due tipi di interessi, e tale conclusione è espressamente ribadita dai lavori parlamentari”.

La mancata previsione, nella legge 108/96, dell’obbligo di rilevazione del saggio convenzionale di mora “medio”, secondo l’ordinanza, “non solo non giustifica affatto la scelta di escludere gli interessi moratori dal campo applicativo della I. 108/96, ma anzi giustifica la conclusione opposta: il saggio di mora “medio” non deve essere rilevato non perché agli interessi moratori non s’applichi la legge antiusura, ma semplicemente perché la legge, fondata sul criterio della rilevazione dei tassi medi per tipo di contratto, è concettualmente incompatibile la rilevazione dei tassi medi “per tipo di titolo giuridico“.

Peraltro, anche la stessa Banca d’Italia, aggiunge la Suprema Corte, nella Circolare 3.7.2013, § 4, ammette esplicitamente che “in ogni caso, anche gli interessi di mora sono soggetti alla normativa anti -usura”.

L’ordinanza in esame ricorda che già Corte cost., 25-02-2002, n. 29, chiamata a valutare la conformità a Costituzione dell’art. 1 d.l. 394/00, cit., osservò che “il riferimento, contenuto nell’art. 1, comma 1, del decreto-legge n. 394 del 2000, agli interessi “a qualunque titolo convenuti” rende plausibile – senza necessità di specifica motivazione – l’assunto, del resto fatto proprio anche dal giudice di legittimità, secondo cui il tasso soglia riguarderebbe anche gli interessi moratori” (corte cost. 29/02, cit., § 2.2 del “Considerato in diritto”).

Allo stesso modo anche la Suprema Corte, già vent’anni fa, affermò: “nel sistema era già presente un principio di omogeneità di trattamento degli interessi [compensativi e mora tori], pur nella diversità di funzione, come emerge anche dell’art. 1224, 1° comma, cod. civ., nella parte in cui prevede che “se prima della mora erano dovuti interessi in misura superiore a quella legale, gli interessi moratori sono dovuti nella stessa misura”. Il ritardo colpevole, poi, non giustifica di per sé il permanere della validità di un’obbligazione così onerosa e contraria al principio generale posto dalla legge”.

Da ciò trasse la conclusione che la pattuizione di interessi moratori a tasso divenuto usurario a seguito della legge 108/96 è illegittima anche se convenuta in epoca antecedente all’entrata in vigore della detta legge (Sez. 1, Sentenza n. 5286 del 22/04/2000, Rv. 535967 – 01).

Il principio per cui le norme antiusura si applicano anche agli interessi moratori, è stato, sottolinea il provvedimento in esame, “in seguito ribadito da Sez. 1, Sentenza n. 14899 del 17/11/2000, Rv. 541821 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 8442 del 13/06/2002, Rv. 555031 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 5324 del 04/04/2003, Rv. 561894 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 10032 del25/05/2004; Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 25/01/2011; Sez. 3, Sentenza n. 9896 del 15/04/2008 (in motivazione); Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 5598 del 06/03/2017, Rv. 643977 – 01; Sez. 6 – 1, Ordinanza n. 23192 del 4/10/2017. Dello stesso avviso è stata questa Corte anche in sede penale [Cass. pen. sez. II, 21.2.2017 (ud. 31.1.2017), n. 8448, in motivazione]”.

Conclusivamente, il Collegio, al fine di prevenire ulteriore contenzioso, svolge due notazioni finali. La prima è che il riscontro dell’usurarietà degli interessi convenzionali moratori va compiuto confrontando puramente e semplicemente il saggio degli interessi pattuito nel contratto col tasso soglia calcolato con riferimento a quel tipo di contratto, senza alcuna maggiorazione od incremento: è infatti impossibile, in assenza di qualsiasi norma di legge in tal senso, pretendere che l’usurarietà degli interessi moratori vada accertata in base non al saggio rilevato ai sensi dell’art. 2 I. 108/96, ma in base ad un fantomatico tasso talora definito nella prassi di “mora-soglia”, ottenuto incrementando arbitrariamente di qualche punto percentuale il tasso soglia. La seconda notazione è che l’applicazione dell’art. 1815, comma secondo, cod. civ. agli interessi moratori usurari “non sembra sostenibile, atteso che la norma si riferisce solo agli interessi corrispettivi, e considerato che la causa degli uni e degli altri è pur sempre diversa: il che rende ragionevole, in presenza di interessi convenzionali moratori usurari, di fronte alla nullità della clausola, attribuire secondo le norme generali al danneggiato gli interessi al tasso legale”.

Fonte: ilcaso.it