L’allargamento dell’Unione Europea ai Balcani Occidentali e le sue sfide

di Asia Corsano

L’allargamento dell’Unione Europea nella regione dei Balcani Occidentali è un argomento da anni al centro dell’attenzione di Bruxelles, in quanto la stabilizzazione di questa turbolenta area d’Europa, caratterizzata da conflitti, tensioni etniche e rivalità intrastatali, è necessaria per garantire la sicurezza dell’Unione e per evitare influenze esterne. Tuttavia, nonostante l’UE abbia avviato il suo primo quadro per le relazioni tra l’Unione e la regione già nel 1999, questo processo sembra ancora lontano dal potersi realizzare.
L’inizio del processo di allargamento
Nel 1999 l’UE ha avviato il Processo di Stabilizzazione e di Associazione (PSA), ossia un quadro per le relazioni tra l’UE e i Paesi nella regione, basato su relazioni contrattuali bilaterali, assistenza finanziaria, dialogo politico, relazioni commerciali e cooperazione regionale. Le relazioni contrattuali si concretizzano poi negli Accordi di Stabilizzazione e di Associazione (ASA), che prevedono la cooperazione politica ed economica, nonché la creazione di zone di libero scambio con i paesi interessati. Ogni ASA istituisce strutture di cooperazione permanenti sulla base dei principi democratici comuni, dei diritti umani e dello Stato di diritto. Nel 2003 il Consiglio europeo di Salonicco ha ribadito che tutti i paesi del PSA erano potenziali candidati all’adesione all’UE, prospettiva in seguito ribadita nella strategia della Commissione sui Balcani occidentali del febbraio 2018 e nelle dichiarazioni a seguito dei successivi vertici UE-Balcani occidentali.

Sempre nel 1999, l’UE ha avviato il patto di stabilità, una più ampia iniziativa che coinvolge tutti i principali attori internazionali, poi sostituito nel 2008 dal Consiglio di cooperazione regionale.
Cosa significano i Balcani Occidentali per l’UE?
L’area balcanica costituisce un importante crocevia tra l’Europa e l’Asia, che la rende un territorio di grande rilevanza strategica e geopolitica: questa regione rappresenta infatti storicamente un’area di interesse sia per la Russia e che per la Turchia, ed in tempi recenti è diventata rilevante anche nel quadro della Belt and Road Initiative – un piano di investimenti infrastrutturali terrestri e marittimi per favorire il commercio tra la Cina e il resto dell’Eurasia. Integrare i Balcani occidentali significherebbe per l’UE un modo per contenere la penetrazione di queste potenze nell’area, specialmente della Federazione Russa, a seguito dello scoppio della guerra in Ucraina, e della Cina, che tenta di rafforzare la propria posizione nel mercato europeo.

Un altro aspetto di rilievo risiede nella capacità economica di questi Stati: si tratta di un’area ricca di materie prime, ma quasi completamente priva di un apparato industriale e di servizi in grado di generare nuova ricchezza, a seguito del depauperamento del suo sistema industriale dovuto alle guerre degli anni ’90. L’adesione al progetto europeo significherebbe un vantaggio economico non solo per l’Unione, ma anche per la regione stessa.

Infine, la tormentata storia dei Balcani, e le guerre degli anni Novanta seguite alla dissoluzione della Jugoslavia, rendono la regione ancora instabile a livello politico (come testimoniato dalla situazione, ancora irrisolta, tra Serbia e Kosovo). L’allargamento permetterebbe di stabilizzare la regione, prevenire lo scoppio di nuove crisi,e consolidare i valori di pace, democrazia, integrazione economica e società aperta che costituiscono le fondamenta dell’Unione e dell’integrazione.

Gli ostacoli al processo di allargamento dell’Unione Europea
Le ambizioni dell’UE si scontrano, però, con delle sfide pratiche e politiche che ostacolano da anni l’allargamento. Per prima cosa, per poter aderire all’Unione, i candidati devono soddisfare i cosiddetti “criteri di Copenhagen”, secondo cui un aspirante stato membro deve avere solide istituzioni democratiche solide, un’economia di mercato funzionante in grado di competere nel mercato unico europeo, e la capacità giuridica di accettare gli obblighi derivanti dal diritto europeo. La storia recente dei Balcani occidentali suggerisce che, sotto questo profilo, i paesi della regione hanno ancora della strada da fare per adempiere pienamente a questi criteri. Due esempi sono la Bosnia, che si trova ancora ad affrontare una situazione interna piuttosto instabile e problematica, e la Macedonia del Nord, dove sono stati riscontrati problemi di corruzione e rispetto dei diritti umani.

In secondo luogo, l’UE si trova a far i conti con degli ostacoli all’interno dell’Unione stessa, in quanto l’adesione di un nuovo Stato richiede un voto unanime da parte di tutti gli Stati Membri, ma al momento diversi Paesi hanno delle riserve sull’eventuale allargamento dei sei candidati. È il caso della Bulgaria, che pone come condizione all’ingresso della Macedonia del Nord il riconoscimento da parte del governo di Skopje dello status della lingua macedone come dialetto della lingua bulgara – una controversia che cela anche radici politiche ed identitarie. Allo stesso modo Spagna, Cipro, Grecia, Romania e Slovacchia non riconoscono l’indipendenza kosovara per timore di legittimare aspirazioni secessioniste nel proprio territorio, come in Catalogna o Cipro del Nord. A questo si aggiunge che i prospetti di adesione di Kosovo e Serbia sono subordinati al processo di normalizzazione dei loro rapporti – che, come testimoniato dai recenti scontri, sono lontani da una soluzione.
L’allargamento dell’Unione Europea e l’opinione pubblica
Le difficoltà riscontrate negli anni hanno diffuso, nell’opinione pubblica balcanica, un senso di frustrazione e disillusione verso le prospettive di allargamento: il Barometro dei Balcani – l’indagine annuale sull’opinione pubblica nei sei Paesi dei Balcani occidentali condotto dal Consiglio di cooperazione regionale – ha infatti evidenziato che solo il 22% degli intervistati ritiene che l’allargamento possa avvenire entro il 2030. Tuttavia, nonostante le riserve sulla lunghezza dei negoziati, questo non ha inciso sull’interesse all’adesione in generale: sempre secondo il barometro, tre quarti dei cittadini dei Balcani occidentali sostiene la cooperazione regionale perché la considera positiva per le rispettive economie, e nel 2023 il 59% della popolazione ha confermato il sostegno verso l’integrazione UE, anche se si tratta del 3% in meno rispetto al 2021.

Nonostante la popolazione sia generalmente a favore dell’integrazione regionale, non si può dire lo stesso invece della classe politica, in quanto risulta un’ulteriore divisione tra governi che sostengono ancora apertamente l’allargamento, ed altri invece che si dimostrano più incerti. Tra coloro che evidenziano il loro appoggio all’UE ci sono Albania, Kosovo, Macedonia del Nord e Montenegro, che nel marzo 2023 hanno lanciato l’iniziativa Western Balkan Quad – 100% compliance with Eu foreign policy- in cui i quattro si impegnano nell’allineamento con la politica estera dell’UE nei confronti della Federazione Russa, tramite il coordinamento delle loro politiche e migliori pratiche. Il caso contrario è invece rappresentato dalla Serbia, che, vista la sua vicinanza alla Russia, opta per una politica di non allineamento e un maggiore distacco verso l’UE.

Il posizionamento internazionale della Serbia è anche il riflesso della sua opinione pubblica: secondo uno studio condotto dallo European Council of Foreign Relations (EFCR), il 54% dei serbi vede la Russia come un alleato e il 41% come un partner necessario, mentre soltanto l’11% ha la stessa opinione sull’Unione Europea, in quanto è largamente diffusa l’idea che il sistema politico dell’UE sia in gran parte disfunzionale e la risposta alla pandemia sia stata inefficace. Lo stesso sondaggio rivela che un terzo dei serbi ritiene che l’adesione all’UE non avverrà mai. L’euroscetticismo generale nella popolazione serba è un riflesso dell’arretramento democratico che sta subendo il Paese: è caratterizzato da corruzione ad alto livello, e il suo ambiente mediatico è in peggioramento. Secondo gli analisti, tra luglio 2020 e la fine di giugno 2021, i rappresentanti della maggioranza al potere hanno ricevuto fino al 93 per cento del tempo di trasmissione televisiva sulla programmazione che copre attori politici, mentre l’opposizione era presente nel restante 7 per cento del tempo.
La strada dei Balcani Occidentali verso l’Unione Europea, dunque, è ancora lunga, rendendo necessario per i paesi dell’Unione trovare delle soluzioni alle contraddizioni che hanno finora penalizzato il processo di integrazione e stabilire una strategia più chiara a riguardo.

Fonte: orizzonti politici

Navigare in alto mare”, il rapporto dei 12 saggi franco-tedeschi sul futuro della Ue

di Rosario Sapienza

L’allargamento dell’Unione europea è diventato un vero e proprio rebus.

Innanzitutto per le condizioni stringenti fissate dall’articolo 49 del Trattato sull’Unione europea, a termini del quale:

«Ogni Stato europeo che rispetti i valori di cui all’articolo 2 e si impegni a promuoverli può domandare di diventare membro dell’Unione. Il Parlamento europeo e i parlamenti nazionali sono informati di tale domanda. Lo Stato richiedente trasmette la sua domanda al Consiglio, che si pronuncia all’unanimità, previa consultazione della Commissione e previa approvazione del Parlamento europeo, che si pronuncia a maggioranza dei membri che lo compongono. Si tiene conto dei criteri di ammissibilità convenuti dal Consiglio europeo.

Le condizioni per l’ammissione e gli adattamenti dei trattati su cui è fondata l’Unione, da essa determinati, formano l’oggetto di un accordo tra gli Stati membri e lo Stato richiedente. Tale accordo è sottoposto a ratifica da tutti gli Stati contraenti conformemente alle loro rispettive norme costituzionali».

E poi perché, non tutti i Paesi che hanno lo status di candidati all’adesione si trovano nelle medesime condizioni, sia perché potrebbero non avere tutti i requisiti, sia perché i negoziati di adesione si trovano in fasi diverse.

Però, se sembra certo, infatti, che per la Turchia, della cui adesione all’Unione si parla ormai da tempo immemorabile, ma poco o nulla si fa, e per l’Ucraina, il cui dossier adesione appare ancor più problematico, non se ne parli proprio, i Paesi dei Balcani occidentali sembrano meglio piazzati.

Così, anche se non sarà per domani, ci ritroveremo presto nell’Unione questi Stati: Albania, Bosnia-Erzegovina, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e forse anche il Kosovo con qualche problema in più legato alle sue vicende peculiari.

È con questo scenario sullo sfondo che va letto il documento “Navigare in alto mare” esitato nello scorso mese di settembre da un gruppo di dodici saggi francesi e tedeschi, proprio per immaginare quali cambiamenti potrebbero essere utili per meglio fronteggiare il futuro di una Unione sempre più allargata e certamente diversa da quella attuale.

Il documento, del quale sono responsabili a titolo personale i dodici saggi, tutti politologi di vaglia, si basa su un assunto in sé condivisibile, ma in nessun modo ineluttabile, e cioè che non tutti gli Stati, sia membri attuali sia futuri, siano interessati agli stessi livelli di integrazione.

Così il rapporto del gruppo dei dodici immagina una nuova e complessa architettura del processo di integrazione europea, che si baserebbe su quattro distinti raggruppamenti di Stati, visti come dei cerchi concentrici.

Una prima assise sarebbe rappresentata dai Paesi dell’Unione che oggi partecipano alla moneta comune e all’area Schengen. Ossia quegli Stati che hanno già costruito forme di integrazione più avanzata, ma i cui elenchi non sono sovrapponibili.

Infatti, se l’area Schengen comprende tutti i Paesi attualmente membri dell’Unione tranne l’Irlanda, la Bulgaria, Cipro e la Romania (ma questi ultimi tre stanno per aderire), dell’eurozona, invece, non fanno parte sette su ventisette membri attuali dell’Unione: Bulgaria, Cechia, Danimarca, Polonia, Romania e Ungheria

Un secondo cerchio sarebbe rappresentato dai rimanenti Paesi dell’Unione, tra i quali gli attuali membri dell’Unione ma non dell’eurozona e, a breve, gli Stati di prossima adesione.

Un terzo cerchio, detto dei Paesi associati, includerebbe Stati che sarebbero impegnati a rispettare i principi e i valori comuni dell’UE ma ne trarrebbero limitati benefici e che vengono identificati con gli attuali membri dello Spazio economico europeo, ma non dell’Unione (Islanda, Liechtenstein e Norvegia) cui si aggiungerebbe la Svizzera.

Un quarto cerchio sarebbe costituito dagli Stati membri della Comunità Politica europea, una piattaforma di consultazione su tematiche di interesse geopolitico.

Il documento poi propone una serie di riforme istituzionali, alcune delle quali già più volte ventilate, che avrebbero lo scopo di rendere più efficienti i meccanismi decisionali dell’Unione e il cui esame esula dall’economia di queste nostre riflessioni.

Che vogliono concentrarsi sull’architettura a quattro differenti compagini, che già in sé desta qualche perplessità.

Innanzitutto, come dicevamo, esso si basa sull’assunto che i quattro cerchi concentrici possano fra loro coesistere.

A me francamente pare invece che il primo cerchio e il secondo possano coesistere con una certa difficoltà, dato che inevitabilmente condurrebbero a una Unione di serie A e ad una Unione di serie B.

Mi pare pure che i Paesi associati sarebbero eccessivamente onerati in cambio dei vantaggi che potrebbero ricavare dalla loro partecipazione e dunque spinti a far domanda di adesione.

E mi pare pure che la Comunità Politica Europea, se dev’essere quella che esiste già dal 2022 sia destinata ad essere poco più che un club dove si discute di cose politiche fra un te e un whisky, ma senza nessuna pratica utilità.

La seconda perplessità riguarda la constatazione che tutta questa nuova (?) architettura potrebbe in fin dei conti celare un inconfessabile proposito: quello di salvaguardare i destini del nucleo puro e duro dell’attuale Unione, lasciando fuori tutti gli altri Paesi, la cui presenza potrebbe profondamente modificare gli attuali equilibri in seno all’Unione.

Per non dire della constatazione, inevitabile, che nella Unione di serie B rimarrebbero alcuni tra i membri attuali più fermi oppositori del mainstream europeo, come, ad esempio Polonia e Ungheria.

Insomma, un documento su cui riflettere ancora.

Tenendo conto che, se la ritrovata cooperazione fra la Francia e la Germania va salutata come un fatto positivo, bisogna sottolineare che questo pas de deux franco-tedesco non è stato sempre un buon affare per l’Unione, con questi due primi ballerini che hanno mostrato in più occasioni di non sapere o di non volere ballare la stessa musica.

Duello DeSantis-Haley, Trump vince senza esserci

New York, 9 nov. – Colpi bassi, momenti di tensione, avversari dipinti come “Dick Cheney con i tacchi” e un “sei una canaglia” sibilato sul palco. Il terzo duello tv tra candidati repubblicani alle primarie non ha deluso nei toni, ma non ha probabilmente spostato gli equilibri nel fronte conservatore: il vincitore non era lì, ma impegnato in un comizio a trenta chilometri di distanza: Donald Trump. Ancora lui. Il tycoon, assente anche al terzo dibattito televisivo, ha parlato ai suoi elettori a Hialeha, a mezz’ora di auto di distanza da Miami dove si sono sfidati Ron DeSantis, Nikki Haley, Tim Scott, Chris Christie e Vivek Ramaswamy. Trump continua a disertare i duelli e a guidare i sondaggi. L’appuntamento di Miami doveva servire a capire chi, tra l’ex ambasciatrice Usa all’Onu Haley, in grande ascesa, e il governatore della Florida DeSantis, crollato nei sondaggi, avrebbe staccato gli altri e conservato una chance. Alla fine hanno dominato la scena, assieme all’imprenditore di origine indiana Ramaswamy, mentre l’ex governatore del New Jersey Christie e il senatore Scott sono destinati a uscire presto dalla corsa. DeSantis ha giocato tutte le carte dell’estremismo, nel tentativo di non apparire la copia di Trump, ma è stata dura. Sui migranti DeSantis ha promesso di mandare i soldati al confine con il Messico, mentre a trenta chilometri di distanza Trump è andato oltre, assicurando la “più grande deportazione domestica nella storia americana”. DeSantis ha promesso che farà “sparare ai trafficanti di fentanyl”, mentre Ramaswamy ha proposto la costruzione di un muro al confine con il Canada. Ma il pugno duro sul narcotraffico è da sempre tra gli slogan di Trump.

Se i candidati hanno attaccato il tycoon per aver disertato il duello, lui li ha llquidati con parole che hanno scatenato l’entusiasmo della base: “E’ giunto il momento per i repubblicani di smetterla di sprecare tempo e denaro per spingere gente debole e inefficace che nessuno voterà”. Per il resto, nelle due ore di scontro in tv i rivali di Trump hanno lanciato messaggi duri e uniformi ad Hamas, ribadendo il sostegno pieno a Israele. “Se io fossi presidente – ha spiegato DeSantis – direi a Bibi (il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ndr) finisci il tuo lavoro una volta per tutte con questi macellai di Hamas, sono terroristi”. Haley ha attaccato Biden per aver fatto pressione su Israele perché accettasse la pausa umanitaria. “L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno – ha commentato – è dire a Israele quello che deve fare”. La campagna di Biden ha risposto alle accuse, accusando i cinque candidati di “aver abbracciato l’agenda estremista e perdente di Trump”, inclusa la linea anti-abortista, che ha aiutato i Democratici a uscire vincente dall’Election Day di martedì. “Normalmente – ha commentato la manager della campagna, Julie Chavez Rodriguez – dopo che hai perso ti prendi un momento per riflettere e correggere. Ma il Partito repubblicano trumpiano ha raddoppiato la sua agenda, nonostante sia stata bocciata in tutto il Paese”.

Ma torniamo al duello tv, che ha registrato due momenti di scontro duro. Il primo quando Ramaswamy ha detto ironicamente, rivolto alla platea, “volete un leader di una nuova generaizone che mette il Paese davanti a tutto o volete una Dick Cheney sui tacchi, e in questo caso ne abbiamo due sul palco stasera”. DeSantis, accusato di recente di usare tacchi rialzanti, non ha risposto. L’ex ambasciatrice, invece, ha ribattuto: “Vorrei precisare intanto che non indosso i tacchi a meno che non sia costretta a correrci. La seconda cosa è che li indosso non per moda ma perché sono un’arma”. Tra i due c’è stato un secondo botta e risposta, stavolta molto più pesante. Parlando di cosa farebbero i candidati per limitare la piattaforma cinese TikTok, accusata di creare dipendenza in milioni di giovani, Ramaswamy si è rivolto a Haley e le ha detto: “Nell’ultimo dibattito mi hai preso in giro per essermi iscritto a TikTok mentre tua figlia utilizzava l’app da tempo. Quindi potresti prenderti cura prima della tua famiglia”. Haley ha risposto: “Lascia mia figlia fuori dalla tua bocca”. E mentre l’avversario continuava a parlare, lei ha sibiliato un “sei solo una canaglia”. Al netto di tutto, il messaggio che ha aperto nuovi scenari è stato quello lanciato da Ramaswamy nel campo avversario. “Joe Biden – ha detto, nell’intervento finale – deve farsi da parte, i democratici devono uscire allo scoperto e dirci chi è il vero candidato, se Michelle Obama o Gavin Newsom”, cioè il governatore della California dato in ascesa tra i Democratici e che a fine mese parteciperà a un insolito duello tv sulla Fox. A sfidarlo sarà uno di quelli di scena a Miami: DeSantis. Un governatore che sfida un candidato alle presidenziali. Non si era mai visto, ma forse, come sospetta Ramaswamy, potrebbe non essere un caso.

Rischio boomerang sul rientro dei cervelli

Il governo ha proposto modifiche alla misura che favorisce il rientro dei cervelli. Alcune sono positive, altre rischiano di vanificare l’investimento degli ultimi anni. Come convincere chi è tornato a rimanere in Italia dopo la scadenza degli incentivi.

Il costo “contabile” degli incentivi

In questi giorni si discute della proposta del governo di modificare gli incentivi fiscali per il rientro del capitale umano, un’inversione di tendenza rispetto ai precedenti interventi che avevano rafforzato gli sgravi. Ma quanto costano questi incentivi? E quali benefici portano?

Secondo le stime del ministero dell’Economia e delle Finanze, nell’ultimo anno per cui sono disponibili dati, gli incentivi sono costati 674 milioni. Il valore “contabile” si ottiene moltiplicando il numero di beneficiari per il reddito medio lordo e applicando la riduzione dell’aliquota media generata dallo sgravio. Analizziamo quindi queste componenti.

Il numero di beneficiari è più che quadruplicato negli ultimi anni, raggiungendo le 20 mila unità nel 2021, come mostra la figura 1. L’aumento è concentrato nel triennio 2019-2021, dopo che il Dl Crescita del primo governo Conte (aprile 2019) ha ampliato la platea dei beneficiari e reso più generosi gli incentivi. Nello specifico, il decreto ha alzato la percentuale di esenzione dal 50 al 70 per cento (90 per cento per chi si trasferisce al Sud) ed esteso la durata massima degli incentivi (quella minima è sempre di 5 anni) da 5 anni a 13 per gli impatriati con figli che acquistano la prima casa (premiando quindi il radicamento).

La figura 1 mostra anche il reddito medio lordo dichiarato dagli impatriati, che in media ammonta a 120 mila euro. Mettendo insieme questi dati, possiamo quindi interpretare la figura 2, che indica il costo degli incentivi stimato dal Mef. Il costo complessivo è triplicato con l’entrata in vigore del decreto Crescita nel 2020, raggiungendo 674 milioni nel 2020 (e probabilmente oltre un miliardo dal 2021). La crescita è dovuta non tanto al graduale aumento dei beneficiari (figura 1), quanto alla maggiore generosità del decreto: la linea mostra infatti come il costo medio per beneficiario sia raddoppiato nel 2020, da 22 a 44 mila euro a persona.

Il costo “economico” degli incentivi e i benefici futuri

Tuttavia, è bene sottolineare che questi valori sovrastimano il costo economico, poiché assumono che tutti i beneficiari sarebbero tornati in ogni caso, anche senza gli incentivi. Se ipotizziamo il caso opposto nel quale tutti i beneficiari tornano grazie agli incentivi (altrimenti non rientrano), il costo economico è zero, poiché si tratta di nuovi contribuenti.

Come avevo spiegato in un precedente articolo, basato su uno studio con Jacopo Bassetto, gli incentivi fiscali introdotti nel 2010 con la legge Controesodo sono stati efficaci nell’attrarre espatriati che senza gli incentivi non sarebbero rientrati. Le nostre stime dicono che senza quella misura circa un impatriato su cinque (il 20 per cento) non sarebbe tornato. Se assumiamo che la percentuale sia rimasta invariata, il costo effettivo sarebbe l’80 per cento del totale. Se poi consideriamo il contributo fiscale di questo 20 per cento – ridotto durante gli incentivi e integrale dopo la loro scadenza – il costo effettivo si riduce ulteriormente.

Nel caso del decreto Controesodo, con gli incentivi limitati a 5 anni e ai giovani, il gettito futuro proveniente da quel 20 per cento è teoricamente sufficiente a compensare la perdita sull’80 per cento. Questo perché i giovani hanno un orizzonte contributivo ampio: 35 anni (età media dei “controesodati”) più 5 di incentivi significa 25 anni di tasse prima della pensione, a patto che la maggioranza rimanga in Italia oltre la scadenza degli incentivi. Senza contare che queste persone rientrano con un bagaglio di conoscenze che contribuiscono alla produttività e alla crescita delle imprese che li assumono, nonché ad attrarre altri espatriati e colleghi dall’estero instaurando un circolo virtuoso. In altre parole, gli incentivi ben disegnati sono un investimento: comportano costi nel breve termine, ma generano benefici sostanziali nel medio-lungo termine.

I cambiamenti annunciati dal governo Meloni

In questa ottica, alcuni cambiamenti annunciati dal governo il 16 ottobre vanno nella giusta direzione perché limiterebbero la durata dell’incentivo (a 5 anni), la percentuale di esenzione (al 50 per cento per laureati e lavoratori qualificati, 90 per cento per professori e ricercatori) e introdurrebbero un tetto massimo a 600 mila euro, che limiterebbe l’effetto regressivo delle misure.

Tuttavia, l’incertezza causata da una comunicazione poco chiara – ad esempio su cosa significhi “lavoratori qualificati” -, nonché dalla prospettiva che le misure possano cambiare ancora in futuro, rischia di vanificare gli sforzi (e i costi) di un decennio di incentivi fiscali e di penalizzare ingiustamente chi ha deciso di rientrare nei prossimi mesi.

Per evitare invece che chi è rientrato grazie agli sgravi se ne vada al loro scadere – cosa che sostanzialmente vanifica i benefici –, si potrebbe introdurre un décalage, ad esempio prevedendo una riduzione graduale della percentuale di esenzione dopo i 5 anni. Inoltre, si potrebbe riconsiderare un limite di età (come nella legge Controesodo) o prevedere incentivi più generosi per i giovani.

Invece mantenere invariato il regime per gli sportivi professionisti (molti dei quali guadagnano certamente più di 600 mila euro) – introdotto anch’esso con il Dl Crescita – significa continuare a sussidiare le società calcistiche che assumono giocatori dall’estero, una distorsione che non ha alcuna giustificazione né di efficienza né di equità.

In conclusione, gli incentivi per il rientro del capitale umano sono un buon investimento (un costo oggi con dei benefici domani) se disegnati per attrarre e trattenere espatriati e stranieri che altrimenti non si sarebbero trasferiti in Italia. Ma rimangono pur sempre un palliativo, poiché non affrontano le cause strutturali che spingono così tanti a lasciare il paese.

Fonte: Lavoce.info

Alle radici della disuguaglianza in Italia

Più che ai livelli delle retribuzioni, l’andamento della disuguaglianza salariale in Italia è legato a quello della stabilità e intensità del lavoro. Le nuove norme facilitano l’ingresso nel mercato, ma con contratti atipici che tendono a rimanere tali.

La distribuzione del reddito negli ultimi trent’anni

In Italia, il livello della disuguaglianza nei redditi da lavoro tra la popolazione in età lavorativa è superiore a quello di Francia e Germania e sostanzialmente simile a quello della Spagna, come documentato da Giulia Bovini, Emanuele Ciani, Marta De Philippis e Stefania Romano.

Una recente indagine dell’Oecd ha rivelato che i cittadini sono preoccupati dal livello di disuguaglianza nel paese, in particolare quella di natura retributiva. I dati amministrativi dell’Inps, relativi a un campione rappresentativo di lavoratori dipendenti nel settore privato non agricolo, hanno permesso un approfondimento sull’andamento, l’entità e le possibili determinanti del fenomeno nell’arco di oltre trent’anni (1990-2021).

La figura 1 riporta le variazioni percentuali nei quantili della distribuzione dei redditi da lavoro annuali, in termini reali. I lavoratori al decimo percentile della distribuzione (ossia coloro che percepiscono una retribuzione più bassa del 90 per cento del campione) hanno visto le proprie retribuzioni annue erodersi di circa il 30 per cento negli ultimi tre decenni. Anche i lavoratori alla mediana (coloro che si trovano al centro della distribuzione) hanno subito una perdita, di poco inferiore al 10 per cento. Al contrario, tra i lavoratori nella parte alta della distribuzione, al 90° o 99° percentile, le retribuzioni sono aumentate. In realtà, i salari sono cresciuti in gran parte nei primi anni Novanta per poi mantenersi sostanzialmente stabili (come documentato anche su questo sito).

La pandemia ha rappresentato uno shock particolarmente negativo, ma di natura temporanea: nel 2021 le retribuzioni sono pressoché tornate sul trend della seconda metà degli anni 2010.

Figura 1 – Percentili delle retribuzioni annuali, deviazioni percentuali dal 1990

Immagine che contiene testo, linea, Diagramma, diagramma Descrizione generata automaticamente

Nota: la figura mostra l’evoluzione dei quantili della distribuzione delle retribuzioni annuali, in termini reali, in deviazioni percentuali (approssimate dalle differenze nei logaritmi) dal 1990.

Fonte: Inps, dipendenti tra i 15 e i 64 anni nel settore privato non agricolo, 1990-2021.

Da cosa dipende l’aumento della disuguaglianza nelle retribuzioni annuali? Come evidenziato anche in un recente contributo di Daniele Checchi e Tullio Jappelli, negli ultimi tre decenni il mercato del lavoro italiano ha sperimentato profonde trasformazioni. Da un lato, tra i lavoratori dipendenti è aumentata la quota di donne, nonché quella dei contratti part-time e a tempo determinato e dei lavoratori impiegati nei servizi (figura 2a). Dall’altro, è diminuita l’intensità di lavoro, ovvero le settimane mediamente lavorate nell’anno, ed è aumentata la frammentazione dei rapporti di lavoro, misurata dal numero medio di contratti stipulati da ciascun lavoratore nel corso dell’anno (pannello b).

Figura 2 – L’evoluzione del mercato del lavoro italiano: quote occupazionali e intensità e frammentazione del lavoro

Nota. la figura riporta le quote di lavoratori part-time, a tempo determinato, nei servizi e donne nel pannello (a); il numero medio di settimane lavorate equivalenti a tempo pieno e il numero medio di contratti per dipendente nel pannello (b).

Fonte: Inps, dipendenti tra i 15 e i 64 anni nel settore privato non agricolo, 1990-2021.

L’importanza del numero di settimane lavorate

L’aumento della diffusione di forme contrattuali precarie, la frammentazione dei rapporti di lavoro e la conseguente riduzione delle settimane lavorate nell’anno possono avere avuto un impatto diretto sull’aumento della disuguaglianza. Neutralizzandone gli effetti, dividendo le retribuzioni annuali per il numero di settimane lavorate e correggendo per i contratti part-time, non emerge infatti un evidente aumento della dispersione. Al contrario, nella parte bassa (10o percentile) le cosiddette “retribuzioni settimanali equivalenti a tempo pieno” sono cresciute lievemente di più di quelle alla mediana e nella parte alta.

Figura 3 – Retribuzioni settimanali equivalenti a tempo pieno, deviazioni percentuali dal 1990

Immagine che contiene testo, diagramma, linea, Diagramma Descrizione generata automaticamente

Nota:. la figura mostra l’evoluzione dei quantili della distribuzione delle retribuzioni settimanali equivalenti a tempo pieno (ottenute dividendo le retribuzioni annuali per il numero di settimane lavorate, corrette per i contratti part-time) in deviazioni percentuali (approssimate dalle differenze nei logaritmi) dal 1990.

Fonte: Inps, dipendenti tra i 15 e i 64 anni nel settore privato non agricolo, 1990-2021.

L’aumento della dispersione dell’intensità di lavoro è dunque il principale canale attraverso cui è cresciuta la disuguaglianza delle retribuzioni annuali. Nel periodo considerato, si è inoltre registrato un aumento della correlazione tra la paga settimanale e il numero di settimane lavorate nell’anno, a indicare che a una maggiore quantità di settimane lavorate si è associato nel tempo un vantaggio salariale crescente. Ciò ha ulteriormente contribuito ad ampliare le differenze tra le retribuzioni basse e quelle alte.

La persistenza dei contratti atipici

Queste tendenze sono andate di pari passo con la maggiore diffusione delle forme contrattuali atipiche, che sono anche divenute più persistenti: la probabilità di mantenere questi contratti per periodi prolungati è infatti notevolmente cresciuta. Nel 1991, il 71 per cento di coloro che avevano un contratto part-time aveva la stessa forma contrattuale nell’anno precedente; nel 2021 la probabilità è salita al 76 per cento (figura 4a). Su un orizzonte temporale di 5 o 10 anni le probabilità di mantenere il contratto part-time sono cresciute dal 42 per cento (nel 1991) al 50 per cento (nel 2021) e dal 31 al 39 per cento, rispettivamente. Simili dinamiche si riscontrano per i contratti a tempo determinato (pannello b).

Figura 4 – La persistenza nelle forme contrattuali atipiche

Nota: la figura riporta nel pannello (a) le probabilità di avere un contratto part-time nell’anno (riportato sull’asse orizzontale) condizionatamente al fatto di avere un contratto part-time nell’anno t-1, t-5 t-10. Il pannello (b) riporta le medesime probabilità per i contratti a tempo determinato (di cui si hanno informazioni nei dati a partire dal 1998).

Fonte: Inps, dipendenti tra i 15 e i 64 anni nel settore privato non agricolo, 1990-2021.

L’evoluzione della disuguaglianza salariale in Italia è dunque legata a doppio filo a quella della stabilità e intensità del lavoro più che dei livelli delle retribuzioni unitarie. Come evidenziato anche in un lavoro di ricerca di Eran B. Hoffmann, Davide Malacrino e Luigi Pistaferri, i cambiamenti istituzionali nel mercato del lavoro sembrano aver favorito la diffusione di contratti che, pur facilitando l’inserimento nel mondo lavorativo di individui con basse prospettive occupazionali, rappresentano sempre meno dei punti intermedi verso forme contrattuali più stabili, con il conseguente aumento delle disparità retributive.

* Le opinioni espresse sono personali e non impegnano in alcun modo la Banca d’Italia o il Sistema europeo di banche centrali.

Fonte: La Voce