Caso Messina Denaro, tra omertà, complicità e indifferenza

di Massimo Veltri*

Ogni qual volta mi sembra di aver trovato una chiave di lettura per sviluppare una traccia di ragionamento mi accorgo che non funziona: può risultare razzista, o assolutoria, o parziale.

Invece la vicenda di Messina Denaro ha tanti fuochi tutti collegati fra di loro, e mette in scena il grande spettacolo italiano che è di scena ininterrottamente dall’unità fino a oggi: un set fatto di morti senza colpevoli, di intrecci fra l’antistato e lo stato, di istituzioni compromesse e di cittadini sempre incolpevoli ma sempre coinvolti.

Entrare in questo spettacolo, in più quadri tutti perfettamente incastrati l’uno con l’altro, scrutarne gli sfondi reali e attardarsi a dipanarne i nodi, presuppone non solo aver digerito fino in fondo la lezione di chi sapeva e conosceva, come Sciascia e Pirandello, Flaiano e Pasolini, ma anche conoscere la storia recente e antica dei nostri territori, mettendosi in gioco in una una tripla sfida. Quella di vedersi etichettato come uno che criminalizza il sud, simmetricamente come colui che leggerebbe nella vicenda l’ennesima dimostrazione di un sud insalvabile, infine come chi denuncia la debolezza e la subalternità delle istituzioni repubblicane in modo disfattista, e l’opportunismo, l’ipocrisia, il marcio come tratti indelebili che segnano le nostre genti.

È una sfida che in ogni caso deve essere accolta, al di là di richiami di responsabilità a circoli massonici più o meno deviati e a ugualmente deviati servizi dello Stato. Non che sia da escludere un ruolo attivo e significativo da parte di costoro nella storia che ha visto il boss dei boss introvabile ma amico di tutti e sotto casa (“E’ stato un errore: ma come, ci hanno mangiato tutti per 30 anni e ora non è più buono?”) a volto scoperto, vaccinarsi ed elargire saluti e baci alla cittadinanza tutta, borghese e popolare, salvo poi decidere di farsi trovare. C’è stato, questo ruolo: certamente, verrebbe da dire, ma se c’è stato ha trovato e si è innestato, anzi, in un tessuto ricettivo e fecondo, quell’identico campo che fece affermare anni or sono a uno dei più prestigiosi leader della sinistra che la mafia non la combatti creando più posti di lavoro: tanto quella, la mafia, offrirà sempre di più. A indigenti e professionisti, aggiungiamo noi.

Che cos’era questa ammissione del dirigente postcomunista, una ammissione di sconfitta, affermare il relativismo della politica, una sollecitazione ad agire nel profondo del corpo sociale, tutto, per invitare prioritariamente alla ricerca e all’affermazione di una griglia di valori che presidino alla costruzione di una società virtuosa?

Ciascuno di noi può optare per la risposta che più delle altre risuoni con le proprie corde: noi, qui, ci limitiamo a segnalare che, accanto ai giusti riconoscimenti per i magistrati e le forze dell’ordine che hanno portato all’arresto del boss, nessuno si è cimentato in questo esercizio, che pure va fatto, non condannando tutti ma non assolvendo nessuno, mostrando alla fine che un’altra strada c’è e che non sa di omertà né tantomeno di complicità, vincendo l’indifferenza.

*Pubblicato su ZoomSud

I PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO

 

Di Roberto Costanzo Gatti

Il XXI secolo nel suo primo ventennio (22 per la verità) ci mostra un netto peggioramento del clima di convivenza, un crollo nella fiducia sulle prospettive e forti domande o meglio dubbi sul nostro futuro. Sovrasta nel senso comune la convinzione che le cose, invece di migliorare, anche se lentamente e con interruzioni, continuino a peggiorare iniettando nelle menti sfiducia, senso di impotenza, rassegnato scetticismo sulla possibilità di invertire la rotta.

Capitol Hill e la rivolta brasiliana segnalano una crisi profonda della democrazia, l’invasione dell’Ucraina fa vacillare la solidità di una pacifica convivenza, le insopportabili spacconate di Nancy Pelosi anticipano un peggioramento sul fronte taiwanese. Inoltre, il surriscaldamento del pianeta minaccia le prospettive di sopravvivenza imponendoci obiettivi che stentiamo a condividere e a realizzare tempestivamente.

Senza entrare in riflessioni ad alto livello partirei elencando una serie di fatti che hanno caratterizzato questo ventennio.

Inizia il 2001 con il fallimento della multinazionale Enron evidenziando la gestione truffaldina di una società  che coinvolge la politica e mette in crisi la credibilità delle società di revisione; nel 2001 a settembre gli attentati alle torri gemelle portano all’estremo la tensione internazionale;  tensione che si concretizza nell’attacco degli USA contro l’Afghanistan; e nel 2003 con l’attacco degli USA contro l’Iraq accusato falsamente da Colin Power di preparare armi di distruzione di massa; nel 2007 il crollo dei mutui subprimes porterà l’anno successivo al fallimento della Lehman Brothers e al crollo dell’economia mondiale sfociata in milioni di licenziamenti di lavoratori in tutto il mondo; la crisi finanziaria costringe i governi ad aiutare le economie ma creando un indebitamento degli stati fonte di ulteriori sacrifici dei governati; scoppia la pandemia Covid e tutti i paesi di ritrovano impreparati ad affrontare le conseguenze anche economiche che incrinano la globalizzazione; nasce il dramma della dipendenza di molti paesi per quel che riguarda l’energia in primis ma che si estende a molte altre critiche materie prime o prodotti quali i semiconduttori; dopo anni si riaffaccia l’inflazione che destabilizza i rapporti internazionali; l’Ucraina e Taiwan, cui abbiamo già accennato, costituiscono una minaccia terribile che rimanda al rischio nucleare, tornato a riattualizzarsi.

La situazione vede incrinarsi la comunicazione, in qualche modo solidale, tra i popoli che si realizzava con la globalizzazione e tende ad acuire l’arroccamento delle due potenze mondiali, USA e Cina, con gli altri paesi che cercano una loro collocazione (India e paesi arabi ma anche sud America) strategica, e la comunità europea che incapace di costruirsi una strategia che ne permetta una funzione autonoma e di riferimento, subisce le manovre strategiche degli imperialismi pagandone le conseguenze in termini economici con gli effetti delle controsanzioni e con una prossima recessione.

Siamo chiari: la recente approvazione da parte degli USA dell’IRA (Inflation Reduction Act), che introduce sussidi all’industria statunitense, aggrava la situazione concorrenziale, già sbilanciata, nella quale l’Europa sta soffrendo nei confronti degli USA con la crisi energetica e con le altre ricadute derivanti dal conflitto ucraino. E’ indubbio che le imprese statunitensi stanno producendo con costi energetici pari ad un quinto di quelli che devono sostenere le imprese europee. L’intervento dello stato che con l’IRA sussidia le imprese rende ancor più ardua la competitività delle imprese europee.

 

 

Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni

Il commissario Gentiloni lancia allora la proposta della riforma degli aiuti di Stato proponendo un fondo sovrano europeo. La proposta costituirebbe un secondo atto politico (dopo quello del NGEU) che rompe una subalternità della politica europea al libero mercato, al liberismo indiscusso. Gli aiuti di stato sono una negazione del libero mercato, ma divengono indispensabili quando gli altri paesi, specie se alleati, fondano la loro concorrenza su simili strumenti. L’Europa se non reagisce alla situazione e non imposta provvedimenti atti a rendere competitive le sue produzioni, rischia di soccombere.

Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni avrebbe quindi l’obiettivo di consentire ai governi di contrapporre alla concorrenza internazionale, non sempre leale, strumenti che permettano loro di aiutare le proprie economie. Gentiloni, tuttavia, aggiunge che “nelle prossime settimane dovremmo deciderne i contorni” aggiungendo che il nuovo strumento dovrebbe finanziare comuni progetti europei in particolare se conformi alle priorità strategiche dell’Unione.

Gentiloni precisa poi che “Dovremo anche decidere come finanziare questo nuovo fondo” ma anche come conferirlo alle imprese, se sotto forma di prestiti o di sussidi, ribadendo che questo fondo “non deve mettere in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza. Non vogliamo certo creare una economia gestita da burocrati. Sarebbe folle!”.

Ecco, quindi il punto; gli aiuti di stato, che sono una negazione della libera concorrenza, non mettono in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza, solo se i fondi erogati lo sono sotto forma di prestito (che quindi devono essere restituiti) o sussidio (che vuol dire a fondo perduto o meglio regalati). Diventerebbero invece una violazione del modello economico europeo se fossero erogati sotto forma di partecipazioni nelle società beneficiarie, facendo quindi del governo (o meglio il contribuente) un socio a tutti gli effetti; ciò sarebbe la follia di una economia gestita da burocrati.

Gentiloni considera quindi Mattei un burocrate a capo dell’AGIP? Siamo seri, è giusta l’analisi di Gentiloni ed interessante la sua proposta di un fondo comune; assurda la sua proposta di come conferire i fondi: pare che seguendo il modello americano si privilegerà la via dei sussidi. Torna quindi in una veste più strutturata la proposta del “campioni europei”

Si sono cioè aperte le porte a una revisione delle regole della concorrenza, rispondendo così alla richiesta presentata in varie occasioni da Francia e Germania per facilitare la nascita di campioni industriali tutti europei, in grado di competere con i concorrenti di Cina e Stati Uniti. La decisione segna un importante raffreddamento nella fiducia nella dottrina della massima concorrenza e de libero mercato, e conferma la volontà di Ursula Von der Leyen di dare seguito alla promessa di una Commissione che difenda gli interessi strategici dell’UE.

Il dossier è fondamentale per il futuro della politica comunitaria. All’epoca del Trattato di Aquisgrana – l’accordo franco-tedesco sottoscritto da Merkel e Macron – passò quasi inosservata l’appendice del Manifesto franco-tedesco per una politica industriale adatta al XXI secolo, un documento dove venne messo nero su bianco la volontà di rendere le aziende europee (in primis francesi e tedesche) capaci di competere con successo, dentro e fuori la UE,  in tutti i settori industriali della competizione globale.

L’obiettivo del manifesto è favorire la creazione di grandi aziende europee in grado di reggere la concorrenza delle multinazionali non europee sostenute (direttamente e indirettamente) dagli apparati statali, in particolare dalle grandi potenze continentali, quindi: Cina, e Stati Uniti su tutti. All’origine del documento presentato da Parigi e Berlino c’è il veto posto dalla Commissione europea al progetto di fusione Alstom-Siemens, l’ambizione di creare un gruppo ferroviario mondiale soffocata dalla solerte applicazione di Margrethe Vestager delle norme antitrust europee. L’idea franco-tedesca era creare un campione europeo capace di tenere testa al colosso statale cinese CRRC, il maggior produttore di veicoli ferroviari del mondo.

La situazione italiana

            Per affrontare il tema della situazione italiana di fronte a questa prospettiva, serve rileggere quanto scrive Paolo Bricco sul Sole 24 ore del 10 gennaio a proposito del problema della dimensione delle nostre imprese. Scrive Bricco “Secondo i calcoli effettuati per il Sole 24 ore dall’economista Sergio De Nardis il potenziale manifatturiero dell’Italia non si è mai ricomposto da allora (dalla crisi del 2008 NdR). Fissando a 100 il parametro dell’anno base 2007, il potenziale manifatturiero italiano continua ad essere nel 2022, sotto di quasi venti punti: per la precisione 81,4 (peraltro in peggioramento rispetto agli 82,9 del 2021). Per essere chiari: non abbiamo recuperato quello che – in termini di capacità produttiva e di tecnologia – abbiamo perduto rispetto a quattordici anni fa.

Ma riandiamo allora, sempre seguendo l’articolo di Bricco, agli anni novanta; anni nei quali si chiusero o privatizzarono “i grandi apparati tecno-industriali di matrice IRI” e le imprese possedute dalle grandi famiglie italiane si ridimensionarono con l’uscita dai business strategici di quelle famiglie storiche del capitalismo italiano convertitesi ad essere “titolari di holding finanziarie di partecipazioni qualche volta industriali, in percettori di dividendi generati da concessioni pubbliche e in clienti di familiy office”.

Tre indici raggelano ogni discussione sullo stato dell’economia del nostro paese: in questo ventennio la produttività è aumentata dello ero per cento e conseguentemente non sono aumentati i salari, anzi sono diminuiti, il nostro PIL attuale è inferiore a quello del 2007. Una situazione del genere presenta una situazione paralizzante del nostro apparato produttivo, paralisi che non viene rimossa neppure dai miliardi regalati alle imprese con i bonus 4.0 Calenda.

In Italia manca la grande impresa e la presenza delle piccole e medie imprese rende impossibile finanziare la ricerca che è il futuro delle economie moderne, relegandoci ad una marginalità che ben difficilmente può vederci protagonisti di progetti pilota, ad essere soggetti appartenenti alla categoria di campioni europei.

Non possiamo però ignorare il progetto di STMicroelectronics.

La Commissione europea ha approvato, ai sensi delle norme dell’UE sugli aiuti di Stato, una misura di aiuto di 292,5 milioni di euro messi a disposizione dall’Italia attraverso il dispositivo per la ripresa e la resilienza a favore di STMicroelectronics per la costruzione di uno stabilimento all’interno della catena di valore dei semiconduttori a Catania (Sicilia). La misura rafforzerà la sicurezza dell’approvvigionamento, la resilienza e la sovranità digitale dell’Europa nelle tecnologie dei semiconduttori, in linea con le ambizioni stabilite nella comunicazione relativa a una normativa sui chip per l’Europa, e contribuirà a realizzare sia la transizione digitale che quella verde.

L’aiuto assumerà la forma di una sovvenzione diretta di 292,5 milioni di euro per sostenere un investimento pari a 730 milioni di euro effettuato da STMicroelectronics per la costruzione di uno stabilimento di wafer di carburo di silicio (SiC) a Catania.

La Commissione ha valutato la misura dell’Italia alla luce delle norme dell’UE sugli aiuti di Stato, in particolare dell’articolo 107, paragrafo 3, lettera c), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), che permette agli Stati membri di concedere aiuti per agevolare lo sviluppo di talune attività economiche a determinate condizioni, e dei principi enunciati nella comunicazione relativa a una normativa sui chip per l’Europa. Tra le varie clausole approvate dalla Commissione STMicroeletronics ha convenuto di condividere con lo Stato italiano gli eventuali utili aggiuntivi che vanno oltre le attuali aspettative.

Bellissima l’iniziativa, lodevole e lungimirante, quello che non capisco è perché in quell’impresa in cui anch’io contribuente ho messo parte dei 292.5 milioni di €, non ho neppure mezza azione, perché non ne ha lo stato italiano o meglio i contribuenti che hanno sborsato i fondi per l’investimento.

Lo sfruttamento marxiano passa dall’appropriazione di qualche ora di lavoro lavorata in più del lavoro necessario, all’appropriazione dei frutti dei cervelli finanziati i dalla comunità con i loro studi e sfocia nell’appropriazione delle imposte pagate dal mondo del lavoro negando a questo mondo la gestione del loro contributo. Dicesi appropriazione del plusvalore tramite fiscalità fenomeno esaltato anche dalla prima manovra del governo Meloni.

 

 

 

Bisognerà fare il Pd da un’altra parte?

«Se non va bisognerà fare il Pd da un’altra parte». Questa affermazioni cosi apodittica di Paolo Gentiloni molti anni fa di fronte a conflitti e dilemmi esplosi alla fine della segreteria di Renzi, è stata riproposta in queste settimane da alcuni commentatori politici per stigmatizzare la drammaticità delle convulsioni nelle quali si dibatte il Partito democratico che non escludono ormai apertamente clamorose rotture.

Un’abiura per un partito inutile

Laddove il terreno unificante della maggior parte degli interventi era dichiaratamente smantellare l’identità politica del Pd originario, accusato di essere subalterno all’ordoliberismo, di non avere un esplicito profilo progettuale di sinistra, di non essere il “partito degli ultimi” bensì quello delle classi medie in ascesa e soprattutto di essersi schiacciato sulla esaltazione del mercato/impresa come condizioni indispensabili per la crescita, ma anche per la democrazia stessa.

In sintesi di essere un partito di governo invece che un partito antisistema; un partito della nazione, rifomista, che guarda al partito democratico americano e alle socialdemocrazie europee invece che un partito in lotta contro il modello di sviluppo che guarda a tutti i radicalismi minoritari che circolano nel mondo.

Certo la sostituzione di Alfredo Reichlin e di Pietro Scoppola con Nadia Urbinati, Sandro Ruotolo ed Emanuele Felice non poteva che partorire un impasto ideologico regressivo, votato alla creazione di un partito inutile, che non serve al paese e non combatte la destra.

Per gli esponenti più radicali del comitato dei saggi la rifondazione del Pd passava necessariamente per una abiura, piuttosto che da un ripensamento critico, della sua identità storica che lo aveva collocato fuori dal perimetro ristretto della sinistra di ascendenza comunista, fuori da ogni ancoraggio classista, sintetizzata dal suo nome stesso che non faceva programmaticamente nessun riferimento alla tradizione socialista; abiura che implicava necessariamente un ritorno a quel campo e a quell’impianto ideologico, che non faceva mistero di avere nel suo dna la passione rivoluzionaria e di guardare ancora al 1917 con un misto di nostalgia e di orgoglio.

Lo spazio non illimitato della convivenza

Non c’è dubbio che in quell’occasione si fosse superato il limite oltre il quale venivano meno tutte le ragioni di ogni possibile pluralismo all’interno dello stesso partito, nato per tenere insieme i riformismi minoritari all’interno di tutte le famiglie politiche della Prima Repubblica, perché la differenza d’idee e di proposte può convivere in una stessa comunità politica solo se si condividono sia la sua funzione storica – nel caso del Pd unire i riformisti e portarli al governo del paese in una nuova democrazia dell’alternanza – sia la sua tavola dei valori – l’identità democratica che si risolve in se stessa senza ulteriori specificazioni, la società aperta nella quale la libertà d’intraprendere si coniuga, non senza conflitti, con la giustizia sociale, la promozione dei diritti di tutte le minoranze, l’irreversibile scelta atlantista ed europeista.

Se questo terreno comune è messo in discussione fino a imputare allo stesso progetto fondativo la sequela di sconfitte elettorali che il partito ha inanellato dal 2014 quando aveva raggiunto il suo massimo consenso agli inizi della segreteria Renzi e si ritiene che la sua negazione o il suo superamento siano la condizione per il suo rilancio, hanno ragione tutti quei dirigenti o militanti del Pd che non si riconoscono in questa narrazione di rifiutarsi di stare in minoranza in questa nuova casa politica che non è altro che la riedizione di vecchi partiti della sinistra minoritaria usciti sconfitti dalla storia del secolo scorso.

Un lungo itinerario distruttivo

In realtà a ben guardare questa frattura distruttiva non nasce dalla sconfitta elettorale di settembre; è piuttosto l’epilogo di un lungo itinerario cominciato con il fallimento della segreteria di Walter Veltroni, incapace di reggere la pressione della sinistra dalemiana che aveva accettato obtorto collo il progetto del Lingotto e la nascita del nuovo partito nella misura in cui rompeva programmaticamente con la tradizione del Pci e della sinistra democristiana, per attraversare il terreno incognito di una forza politica che guardava più a Carlo Rosselli che ad Antonio Gramsci e Giuseppe Dossetti.

Fin dalla segreteria Bersani gli ex comunisti avevano cominciato a corrodere la nuova casa politica del riformismo italiano tentando di egemonizzarla con una riedizione delle vecchie tesi della sinistra Ds, aprendo un conflitto permanente con chi invece si riconosceva nella discontinuità progettuale e ideale rappresentata dal Pd, erede dell’Ulivo e del sogno di rifondare la democrazia italiana dopo il crollo della prima Repubblica in chiave maggioritaria e competitiva.

Ma la sconfitta elettorale del 2013 certificava che direzione politica espressa da questa nuova maggioranza antiveltroniana aveva fallito, dissipando il successo elettorale del 2008 e lasciando su terreno circa tre milioni di voti.

Il Pd era apparso un partito confuso – né di lotta né di governo – incoerente rispetto alle sue ragioni fondative, scosso da lotte intestine che la imprevista e improvvisa candidatura di Renzi alla segreteria rese dirompenti. Nonostante il consenso e il successo del sindaco di Firenze, che rappresentava anche nella sua giovane età e nella sua breve esperienza politica tutto il contrari delle tradizioni di sinistra espresse dai suoi competitori e dai suoi avversari interni, la frattura tra riformisti ed eredi del Pci con qualche truppa di complemento democristiana si accentuò diventando drammatica e soprattutto irresolubile.

La sconfitta referendaria, che vide il Pd spaccarsi in una lotta fratricida, fece emergere, al di là dei personalismi e degli errori, che nel Pd convivevano due idee dell’Italia e della sua democrazia, due visioni del futuro del paese e due idee sulla funzione di un partito di centrosinistra: i cultori della «costituzione più bella del mondo» si riconoscevano ancora nell’immobilismo istituzionale che già aveva contrapposto il Pci di Enrico Berlinguer e Alessandro Natta al Partito socialista italiano di Bettino Craxi, il teorico della “grande riforma” delle regole del gioco intesa come condizione della modernizzazione del paese, ma al contempo avversavano la democrazia decidente, iscritta nel dna del Pd.

Chi seguì Bersani e D’Alema nella ormai famosa scissione che portò alla nascita di Articolo 1 e poi di Liberi e Ugali, costituiva una minima parte della cosiddetta “ditta” che proseguì nel partito la lotta senza quartiere a Renzi e al “renzismo” visto come un corpo estraneo alla sinistra, come “destra”, fino alla delegittimazione giustizialista, mentre era l’interprete più fedele dell’identità piddina sempre più estranea alla sinistra interna interpretata da Orlando, Gianni Cuperlo e altri epigoni della storia irrisolta del Pci.

Guardare sempre a sinistra non è la soluzione, è il problema

Di fronte alla valanga populista del 2018 che travolse la sinistra in Europa e non solo in Italia la risposta della nuova maggioranza di sinistra che aveva messo in minoranza Renzi e il suo gruppo dirigente fu quella di accentuare ulteriormente il suo profilo di sinistra allontanandosi sempre più dal Pd delle origini, nella convinzione che vi fosse stata una frattura tra il riformismo e il popolo che poteva essere sanata solo inseguendolo nel suo presunto itinerario a sinistra.

Ma in quel frangente storico la rincorsa a sinistra condotta in maniera superficiale e frettolosa – come si fa a stare con il lavoro senza interrogarsi sullo sviluppo delle forze produttive? – si risolse nel collocare il mantra della lotta “alle diseguaglianze” e al “neoliberismo” e di un confuso ambientalismo  nella deriva assistenzialista, antindustriale, giustizialista impressa dal populismo grillino, a cui si riconosceva una matrice di sinistra del tutto assente.

Questa virata ideologica non si fondava su nessuna analisi concreta: era la sovrapposizione alla realtà di miti e sogni del passato operata da una minoranza che si è rivelata elettoralmente inconsistente.

È la deriva permanente del massimalismo e dell’estremismo: si era già manifestata un secolo fa, seppur in dimensioni ben più tragiche, dopo la Grande guerra, si era riproposta nel secondo dopoguerra, negli anni sessanta e settanta, e si era già cimentata vittoriosamente nell’impedire la nascita effettiva del Pds e nello sfasciare sul nascere l’Ulivo. Questa operazione si combinò con il tentativo di riorganizzare il partito rinunciando alla effettiva contendibilità delle cariche e dell’apertura alla società civile e trasformandolo in un partito di capicorrente stretti da un patto di sindacato per distribuirsi incarichi e poltrone dal centro alla periferia: era la traduzione peggiore del famoso “noi” contro l’”io”, del collettivo contro la solitudine del leader.

Il rinculo populista

Questo progetto non ha pagato se, nei quattro anni dopo il 2018, il Pd ha perso quasi tutti i governi regionali e molti comuni di grandi e medie città e soprattutto non ha allargato la sua base elettorale: il popolo che era “fuggito nel bosco” lì è rimasto o peggio ha dato un consenso sempre più consistente alla destra sovranista di FdI.

La costruzione di un profilo ideologico socialista o laburista che puntava – sponsor Bettini, alias D’Alema – alla creazione del partito unico demopopulista con i Cinquestelle tentata soprattutto con il Conte II e con la segreteria di Nicola Zingaretti ha subito certo una battuta d’arresto con l’operazione Mario Draghi escogitata dalla minoranza riformista di Italia Viva e con l’appoggio ambiguo del Pd diretto da Letta, ma non ha invertito le dinamiche di un processo di mutazione profonda di quel partito.

Al suo interno infatti non vi erano più le forze in grado di fare della agenda del governo più riformista, dopo quello di Renzi e del Prodi 1, la leva per rompere il patto populista tra Pd e M5s e ricollocare il Pd fuori dalla deriva sinistra i cui i capi di quasi tutte le correnti lo avevano cacciato.

Per paura di essere tacciati di renzismo i pochi riformisti rimasti nel Pd per quattro anni hanno deciso di tacere assecondando un unanimismo di facciata autoconvincendosi che la dialettica interna al Pd era uguale a quelle dai partiti socialdemocratici da sempre divisi tra una destra e una sinistra interna. Ma era una raffigurazione consolatoria perché la sinistra interna al Pd non ha nulla a che spartire con la socialdemocrazia ma non sì è liberata di un antagonismo messianico che rievoca, come ha ricordato Arturo Parisi, il 1921 e la fondazione del PCI a Livorno: non a caso la candidata Schlein da quella città farà partire la sua campagna per le primarie.

Perse le elezioni per l’assenza di una proposta di governo e di un leader-Presidente del Consiglio, la maggioranza di sinistra alla guida del partito invece di prendere atto del suo fallimento ha riproposto la stessa analisi del ’18, inventandosi che era stato il fantasma di Renzi, sotto le mentite spoglie del tecnocrate Draghi, a rallentare la marcia del grande abbraccio tra il massimalismo e il populismo e quindi a decretare la sconfitta elettorale.

Invece che una autocritica radicale lo stesso gruppo dirigente notabilare ha imputato sempre allo stesso vizio di origine del Pd la sconfitta elettorale: sul banco degli imputati sono stati ancora fatti salire ancora Renzi e poi Draghi, la vocazione maggioritaria, il liberalismo di sinistra, l’americanismo, la globalizzazione, il riformismo, persino il sostegno alla resistenza ucraina, chiamando il congresso a decretare trasformazione del PD in un partito pseudo socialista di “unità populista”; una via di mezzo tra il Psiup e il Pdup, tra France insoumise e Podemos, finalizzata a unire la sinistra attorno al mito purificatore dell’opposizione e della lotta al liberismo.

Ma un partito identitario di sinistra minoritario che programmaticamente dismette la cultura di governo e il suo sforzo di parlare al paese nel suo complesso è il contrario del Pd e delle ragioni storiche che lo hanno fatto nascere ed è destinato irrimediabilmente a una crescente marginalità politica: una specie di Rifondazione comunista 2.0, peggiore dell’originale.

Un nuovo Pd, altrove

Ma più il Pd si allontana dalle sue vocazioni e ambizioni originarie, senza che nessuno si assuma la responsabilità di fermare questa deriva (non basta denunciarla timidamente e ormai oltre la zona Cesarini), più cresce l’esigenza di seguire il suggerimento di Gentiloni, cioè ricostruire una casa dei riformisti dopo che quella faticosamente messa in piedi quindici anni fa è stata corrosa dal tarlo malefico del massimalismo populista.

Circa due milioni di persone hanno dato credito alla lista Calenda nata dall’incontro tra Azione e Italia viva –altro che sconfitta elettorale come si attardano a sostenere anche i riformisti rimasti nel Pd forse per salvarsi la coscienza – assumendola non come punto di arrivo ma come il primo nucleo organizzativo di un progetto più ampio di aggregazione politica nel quale si possano riconoscere e al quale possano collaborare quei cittadini e quelle cittadine che non vogliono morire bipopulisti ma che ritengono che esista lo spazio per una nuova “via” del riformismo europeista.

Il partito nuovo che dovrà nascere dal concorso di queste forze non deve cominciare da zero perché la sintesi del Lingotto 2008 resta ancora a tutti gli effetti il punto più alto di elaborazione del riformismo italiano, ma che va aggiornato alla luce della doppia crisi della globalizzazione neoliberista e del multilateralismo delle relazioni internazionali che impone di rideclinare il rapporto tra pace, libertà e giustizia sociale e ridefinire in termini nuovi i caratteri di un liberalismo inclusivo come orizzonte ideale del riformismo europeo.

Accettare la sfida?

Guai se i promotori della federazione tra IV e Azione dessero l’idea che i giochi siano fatti e che agli altri non resti che aderire a un progetto politico già elaborato. È invece vero il contrario: senza gli altri che ora stanno nel Pd, in +Europa e in altre casematte liberali e socialiste il partito nuovo del riformismo italiano e destinato a non nascere.

È un percorso lungo e faticoso, esposto a tutti i rischi del fallimento se non si formerà un gruppo dirigente capace di guidare a partire dalla dimensione europea un partito della nazione: non un partito dei sopravvissuti, non un “partito dei sindaci”, ma un partito nuovo che si assuma il compito di ripartire da quella vecchia fabbrica torinese dove il riformismo liberale e inclusivo aveva scritto la sua pagina più compiuta e lungimirante.

E una sfida che riguarda anche i riformisti che rimangono nel Pd e che quella pagina avevano contribuito a scriverla: se ritengono che basti sostenere Stefano Bonaccini che resta un “comunista emiliano” poco sensibile al richiamo di questa tradizione politica, la partita è persa in partenza perché avranno deciso di essere una minoranza presto silente nel nuovo Ds incapace di sfuggire alla morsa populista.

Se invece decideranno di rimettersi in cammino dando battaglia oggi nel congresso del Pd e domani partecipare alla riunificazione dei riformisti in nuovo luogo che essi stessi contribuiranno a definire vorrà dire che sono usciti dal “grande sonno” in cui riposano da oltre cinque anni.

 

* Pubblicato su Linkiesta del 10 gennaio 2023

Orrore Iran

Altre due impiccagioni, altre due morti atroci, insopportabili, orride come solo una pura dimostrazione di forza belluina di uno Stato senza morale (e senza politica) può essere. Il senso di impotenza, davanti alle notizie che ci piovono sulla testa con sconcertante regolarità dall’Iran, è pari solo alla frustrazione, all’incapacità di comprendere e – diciamolo – allo schifo per questo spettacolo immondo.

Ragazzi che muoiono per aver protestato, condannati in processi che possono ricordare solo le lugubri e ripugnanti farse delle purghe staliniane o dei tribunali speciali nazisti. Nessuna difesa, nessuna possibilità non diciamo di far valere i propri diritti, ma di ottenere un trattamento che possa dirsi degno di uno Stato civile. Anche lontanamente civile. Lasciamo perdere lo Stato di diritto, che all’evidenza la teocrazia iraniana non sa cosa sia. Un luogo in cui chi ha il potere ha perso la testa e la capacità di controllare le masse, specie quelle più giovani, reagendo con una frustrazione incanalata nella violenza più cieca e assurda. Una clamorosa dimostrazione di debolezza, in realtà, ma questa è una valutazione tutta politica, mentre la gente muore appesa a una gru in mezzo a una piazza o eliminata senza testimoni in qualche buco infernale.

Come comportarsi con un potere del genere, cosa fare con uno Stato che ha dimenticato i più elementari principi di umanità e rispetto? Scrivevamo di senso di impotenza, ossessivo quando ci si rende conto di avere poche armi e anche spuntate: le sanzioni economiche – neanche lontanamente paragonabili a quelle applicate contro la Russia – un isolamento internazionale di fatto, la pur lodevole pressione mediatica. Sapendo che tutto questo non farà cadere chi è al potere a Teheran.

Accadrà, ma quasi certamente per un golpe, per un rivolgimento interno di equilibri di potere, perché magari l’esercito non sopporterà più lo strapotere delle milizie religiose foraggiate dagli estremisti. Niente che abbia a che vedere con la libertà e la democrazia, tranne la commovente lotta di questi ragazzi. Ventenni o poco più, disposti a sacrificare la vita per un ideale. Nulla di più puro, di degno di maggior ammirazione per noi che siamo i nipoti delle lotte per la libertà di casa nostra. Rispetto e commozione.

 

di Fulvio Giuliani

Fonte: La Ragione 

 

IL REDDITO DI CITTADINANZA DEL CAPITALE

 

Di Renato Costanzo Gatti

La politica si sta arroventando sui 9 miliardi di € che il Reddito di cittadinanza costa alle finanze italiane. Ma nessuno sta indagando su i regali ed i sussidi che vengono fatti alle imprese ma che disvelando il meccanismo sono regali fatti al Capitale (e lo chiamo con la C maiuscola essendo esso il vero sovrano).

Tutti sono d’accordo a dare sostegno alle imprese perché queste, aiutate, possano continuare a produrre, a dare occupazione, ad esportare, a far funzionare il paese. Molta della politica economica dei governi tende a creare stabilità, e a creare condizioni per attrarre investimenti esteri. Ma quando questi investimenti arrivano, dall’Italia o dall’estero, vanno ad aumentare il capitale sociale delle imprese finanziate che così irrobustite trovano maggior credibilità sul mercato, e vengono riconosciuti assegnando al finanziatore corrispondenti azioni societarie dell’impresa finanziata.

Quello che invece non si riesce a capire è perché quando gli stessi fondi, gli stessi investimenti vengono dallo stato, non viene aumentato il capitale sociale, non vengono date azioni sociali all’investitore ma il tutto si trasforma o in aiuto di stato esentasse o in credito di imposta che l’impresa potrà utilizzare al momento del pagamento delle imposte ovvero potrà, se previsto, cedere alle banche in cambio di contanti.

Insomma, questi regali, sussidi, incentivi, agevolazioni 4.0, vanno dai contribuenti al Capitale rappresentante un REDDITO DI CITTADINANZA DEL CAPITALE che gode del silenzioso assenso della collettività (solo un sindacalista della Uil si pone domande simili alle mie).

Ma vogliamo vedere un elenco incompleto di questi aiuti che si aggiungono a quelli già esistenti (tra tutti le agevolazioni 4.0) con la recente legge aiuti?

  • Estensione al primo trimestre 2023dei crediti d’imposta per l’acquisto di energia elettrica e gas, con aumento delle aliquote agevolative. Alle imprese energivore viene riconosciuto un credito d’imposta pari al 45% delle spese sostenute per la componente energetica acquistata ed effettivamente utilizzata nel primo trimestre 2023. Alle imprese non energivore viene riconosciuto un credito d’imposta pari al 35% della spesa sostenuta per l’acquisto della componente energetica, effettivamente utilizzata nel primo trimestre dell’anno 2023. – Alle imprese gasivore e non gasivore viene riconosciuto un credito d’imposta pari al 45% della spesa sostenuta per l’acquisto del gas, consumato nel primo trimestre solare del 2023, per usi energetici diversi dagli usi termoelettrici.
  • Estensione del credito d’imposta per l’acquisto di carburanti per l’esercizio dell’attività agricola e della pesca. Il bonus spetta alle imprese esercenti attività agricolae della pesca e alle imprese esercenti l’attività agromeccanica ed è pari al 20% della spesa sostenuta per l’acquisto del carburante effettuato nel primo trimestre solare dell’anno 2023
  • Prorogaal 31 dicembre 2023 del credito di imposta per la quotazione PMI, con aumento del tetto massimo del bonus a 000 euro. Conferma per tutto il prossimo anno della disciplina transitoria e speciale del Fondo di garanzia per le PMI. La misura dell’aiuto resta confermata al 50% delle spese di consulenza sostenute dal 1° gennaio 2018 al 31 dicembre 2023 per l’ammissione alla loro quotazione in un mercato regolamentato o in sistemi multilaterali di negoziazione di uno Stato Ue o dello Spazio economico europeo, mentre aumenta da 200.000 a 500.000 euro il tetto massimo del credito d’imposta.
  • Nuovo credito d’impostaper l’acquisto di materiali riciclati provenienti dalla raccolta differenziata.
  • Istituzione di nuovi fondiper la sovranità alimentare e per l’innovazione in agricoltura.
  • A favore del settore autotrasporto sono stanziati 200 milioni di euro per il riconoscimento di un contributo a favore delle imprese esercenti le attività di trasporto finalizzato volto a mitigare gli effetti degli incrementi di costo per l’acquisto del gasolio utilizzati per l’esercizio delle attività.

Per un nuovo stato sociale

Il nostro pensiero non può non andare al Nobel James Meade ed all’intervento fatto al CNEL dal prof. Leonello Tronti che qui parzialmente riporto, interventi che vedono un coinvolgimento della collettività nella socializzazione dei mezzi di produzione, preludendo ad una società del benessere fondata su un livello importante di copartecipazione.

Nell’opera Full Employment Regained? (1995) di James Meade, l’economista inglese amico di Keynes e premio Nobel nel 1977. evidenzia che l’accettazione della flessibilizzazione della retribuzione da parte dei lavoratori comporta l’assunzione del rischio di impresa, e perciò stesso una profonda modifica del tradizionale rapporto di lavoro dipendente. Il lavoratore che accetta di commisurare la propria remunerazione all’andamento dell’impresa non può che diventare un socio, un partner che investe nell’impresa il proprio lavoro al pari di chi investe nell’impresa il proprio denaro. Ma, ai fini della protezione del reddito delle famiglie, l’abbandono del principio della garanzia di stabilità della retribuzione comporta che essa sia necessariamente integrata con altri redditi. La prima e più socialmente scontata forma di integrazione è quella con il reddito da capitale (le “azioni di lavoro” della stessa impresa dove il lavoratore è impiegato ora o è stato impiegato in precedenza).

Meade intende rafforzare il legame di complementarità tra la diffusione della proprietà azionaria e la sostenibilità sociale di un elevato grado di flessibilizzazione della retribuzione del lavoro, e quindi di “purezza semantica” del salario come segnale di mercato, utile ad orientare l’allocazione ottima dei fattori. Il grado di flessibilizzazione dei salari e di integrazione di questi con redditi da capitale (azioni di lavoro) offre la misura della necessità di programmi pubblici di sostegno del reddito e di protezione dell’occupazione: un lavoratore partner a salario flessibile non perderà mai il proprio posto di lavoro (a meno che l’impresa non sia costretta a chiudere), ma potrà scegliere se rimanere nell’impresa in cui si trova o cercare di cambiare lavoro quando la sua retribuzione o il valore delle sue azioni abbiano raggiunto un livello che non gli sembri più adeguato.

La garanzia proposta da Meade è data dalla progressiva integrazione di tutti i redditi attraverso il “dividendo sociale”: un reddito ricavato da una partecipazione pubblica fino a un massimo del 50 per cento al capitale di tutte le imprese (attraverso un processo che chiama di “nazionalizzazione alla rovescia”). Il reddito ricavato dallo Stato dalla sua partecipazione nelle imprese dovrebbe gradualmente trasformare il debito pubblico in credito pubblico, sostituire buona parte della tassazione, e soprattutto consentire a tutti i cittadini di godere in perpetuo di un reddito uguale per tutti e indipendente dal lavoro – frutto tangibile della cooperazione sociale tra Stato, imprenditori e lavoratori nella buona conduzione delle imprese e dell’economia.

L’indicazione prospetta una profonda trasformazione dei rapporti sociali ed economici, che ha il vantaggio di poter essere attuata gradualmente, senza scosse sociali né politiche, né economiche. Certo in molti paesi europei e anche in Italia esistono programmi assistenziali universalistici, che assicurano un reddito minimo a tutti i cittadini in condizioni di particolare disagio economico, indipendentemente dalla loro presente o passata condizione nel mercato del lavoro. Ma la concezione meadiana non parte da motivazioni di carattere assistenziale, bensì dalla volontà di evidenziare da un lato a tutti i cittadini i frutti della cooperazione sociale e, dall’altro, di depurare i salari da qualunque rischio inflazionistico come anche da qualunque funzione redistributiva.

Il dividendo sociale propone un nuovo modello comportamentale dell’operatore pubblico, mirato a rilanciare in termini innovativi il tradizionale ruolo keynesiano di sostegno alla crescita economica e occupazionale, in cui lo “stato azionista di minoranza” trasforma il rapporto tra realtà produttiva e stato sociale, oggi in crisi, per dare vita ad un sistema di protezione sociale che, anziché contrapporsi come correttivo allo sviluppo della produzione e del reddito, è totalmente connaturale con esso. Di più: mentre la disponibilità per il sistema economico di un consistente credito pubblico non può non influire positivamente sul mercato dei capitali e sul livello del saggio di interesse (e quindi sulla facilità di creazione di nuove attività produttive), l’interconnessione esplicita tra partecipazione pubblica alla produzione e livello del dividendo sociale configura una nuova e più ricca concezione della cittadinanza e della solidarietà sociale. È questo il futuro dello Stato sociale?”