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Nel retroscena della pandemia le grandi manovre della politica.

Di
Redazione
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15 Novembre 2020

Di Antonello Longo – Direttore Responsabile

“Pandemocrazia” è il neologismo usato per descrivere i rischi che il sistema democratico italiano corre nel tempo della pandemia.
Tutti noi, com’è naturale, siamo presi dal seguire, giorno per giorno, l’evoluzione del contagio, il triste conteggio dei ricoveri e dei decessi. La politica non passa in secondo piano, ma si riempie dell’interminabile tiritera di polemiche sulla gestione dell’emergenza e difficilmente la pubblica opinione riesce a focalizzare alcune questioni di fondo che riguardano l’avvenire nostro, dei nostri figli, della nostra democrazia. Perché ci sarà un domani dopo la tempesta che adesso c’investe e però saranno molte le cose che ci ritroveremo cambiate per sempre, a partire dalle condizioni della finanza pubblica.
Per fermarci alla dinamica politica, il flagello Covid sovrappone il suo corso, condizionandole, alle tendenze già era in atto nel Paese.
Il governo Conte bis, dalla nascita, ha fatto una scelta di continuità rispetto a due nodi centrali: il taglio del Parlamento e le autonomie differenziate.
Sulla riduzione del numero dei parlamentari, avallata da un ampio consenso popolare nel referendum del 20 e 21 settembre, il Partito Democratico, appena passato dal ruolo di oppositore a responsabilità di governo, ha cambiato posizione, passando dal voto contrario all’essere favorevole.
Ora, messe da parte le forzature alla logica ed al buon senso, dalla diminuzione dei parlamentari, soprattutto per le motivazioni che l’hanno consentita (cioè il forte discredito delle istituzioni), oggettivamente il Parlamento esce indebolito nella sua funzione di perno dell’architettura costituzionale. Effetto, questo, che gli indispensabili contrappesi ad una simile riforma (legge elettorale e ridefinizione dei collegi, eliminazione del collegamento tra il Senato e le regioni, modifica del procedimento per l’elezione del Presidente della Repubblica e così via) potranno attenuare ma non eliminare.
Indebolire il Parlamento non è un accidente casuale, ma una precisa strategia cui un complesso di forze politiche ed economiche lavora da decenni: passare da un sistema pluralista ad una democrazia “decidente” dove a contare è soprattutto il potere esecutivo, il governo.
Non entro, qui, nel merito della discussione sul punto. Collego, invece, questa scelta alla gestione della pandemia. La dichiarazione dello “stato d’emergenza”, misura non prevista dalla Costituzione, la scelta dei decreti del Presidente del Consiglio come strumento d’intervento che ha permesso di saltare le procedure ordinarie e mettere le Camere di fronte al fatto compiuto, al di là dei tecnicismi con cui sono state superate le obiezioni di incostituzionalità, sono coerenti con una scelta antiparlamentare di fondo.
No, non attribuisco al professor Giuseppe Conte tentazioni autoritarie. Ma certe pratiche costituiscono un precedente che resta e, in qualche modo, traccia il sentiero per possibili avventure nel futuro.
In questo fine settimana si tengono gli “stati generali” del Movimento 5 Stelle, che, non lo si dimentichi, è la forza di maggioranza relativa dell’attuale Parlamento e
perno del governo. Si discute, come in qualsiasi congresso di partito, sugli organigrammi, gli assetti interni. Ma è lecito chiedersi se questi neofiti del potere, più apprendisti stregoni che riformatori, così come i loro alleati, si rendono davvero conto di dove stanno portando il Paese.
Altri due elementi, tra loro collegati, suscitano allarme sotto il profilo della torsione del sistema verso un assetto diverso da quello costituzionale: il nuovo, esasperato protagonismo dei presidenti delle giunte regionali e le intese tra governo e regioni sulle autonomie differenziate.
La legge quadro proposta dal Ministro delle regioni, Boccia (PD), recepisce le pre- intese stipulate dal governo Gentiloni (PD) con le regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, che hanno chiesto di attivare il meccanismo previsto dall’articolo 116 terzo comma della Costituzione, chiedendo una nuova forma di “autonomia differenziata”.
Anche qui, senza entrare nel merito, dico che la previsione della legge quadro di costituzionalizzare il ruolo delle Conferenze Stato/Regioni significa, di fatto, bypassare il Parlamento, creando una sorta di terza Camera. E il governo porta la legge quadro di Boccia sulle autonomie differenziate come collegato alla legge di bilancio che, come sempre e come la maggior parte delle altre, passerà a colpi di fiducia.
Sembra un paradosso, ma le forze politiche di governo, che vivono alla giornata trattando così la Costituzione, compromettendo il futuro, diventano le migliori alleate dell’opposizione.
La destra (se c’è un centro, io non lo vedo), al contrario, si muove lungo il binario di una strategia precisa: da una parte l’obiettivo di Salvini, le autonomie differenziate volute dalle regioni del Nord per liberarsi definitivamente, nella distribuzione delle risorse fiscali, della “palla al piede” costituita, a loro giudizio, dal Meridione, smembrando la coesione nazionale; dall’altra parte la riforma presidenzialista voluta dalla Meloni, che punta a ricostituire una forma di unità nazionale attraverso l’elezione diretta del capo del governo. Un “capo”, appunto, cioè il vincitore di uno scontro muscolare nella logica maggioritaria.
Tra Salvini e Meloni, malgrado la rivalità elettorale, c’è dunque un’intesa perfetta: autonomie in cambio di presidenzialismo. Berlusconi non controlla le sue truppe, tutte pronte a partecipare al promesso banchetto governativo, e svolge di fatto, suo malgrado, il ruolo del vassallo.
Gli italiani, chiusi in casa per difendersi dal Covid, possono considerare piuttosto chiaramente gli effetti della svolta che si prepara sotto i loro occhi: il protagonismo dei presidenti di regione, battezzati arbitrariamente (ed erroneamente) “governatori” dalla stampa, i quali non rispondono più a nessun partito, ma si fanno partito essi stessi (pensiamo al partito del “governatore” Musumeci in Sicilia, pensiamo al PD, dove il segretario, Zingaretti, è presidente di una regione e l’aspirante alla sua successione, Bonaccini, ne presiede un’altra); la zuffa indecorosa e interminabile tra potentati locali e governo centrale. Tutto sullo sfondo di un’angosciante crisi di leadership della politica nazionale che, in un momento di tragica emergenza per l’Italia, si accanisce in un ignobile tutti contro tutti, uno scontro senza quartiere,

spesso pretestuoso e strumentale, sulle misure di contrasto ai contagi e sulla gestione dei fondi in arrivo dall’Europa.
La scelta a suo tempo operata dell’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti delle giunte regionali ha portato limitati benefici in termini di stabilità e di efficienza dei governi territoriali solo in qualche luogo e in qualche tempo. Tuttavia il sistema “presidenziale” locale ha trovato grandi estimatori nell’immaginario collettivo e in tutte le forze politiche. Molte voci, a più riprese, si sono levate, anche a sinistra, a favore del modello del “sindaco d’Italia”. Eppure le stesse elezioni americane stanno offrendo un bel saggio di come il presidenzialismo può influenzare, in negativo, le dinamiche sociali.