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Nel nome di Nassyria meno armi piu’ aiuti ai paesi poveri

Di
Redazione
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14 Novembre 2020
Di Antonello Longo
Ricordiamo oggi l’attentato terroristico che il 12 novembre 2003 portò la morte di 28 persone nella base “Maestrale” del Comando italiano in Iraq. Erano 9 iracheni e 19 italiani, 12 carabinieri, cinque soldati dell’esercito e due civili (un funzionario della cooperazione italiana e un aiuto regista che lavorava alla realizzazione di un film documentario sulla missione italiana). I militari italiani erano impegnati nell’operazione di peacekeeping “Antica Babilonia”, durata dal 2003 al 2006. Sono passati diciassette anni dalla strage di Nassyria quando, nella mattina, all’improvviso, un camion cisterna condotto da due jihadisti suicidi e carico di esplosivo sfondò la recinzione della base italiana dei Carabinieri. La detonazione provocò il crollo di gran parte degli edifici. Il deposito delle munizioni e molti mezzi militari presero fuoco. Anni dopo Abu Omar al-Kurdi, esponente di spicco di Al Qaeda, rivendicò di essere stato l’organizzatore di quell’attacco e precisò che la base italiana fu scelta perché si trovava nel centro cittadino di Nassyria, città capoluogo della provincia irachena di Dhi Qar, ed era quindi un presidio particolarmente esposto, difficile da difendere. L’Italia rimase particolarmente scossa dalla morte dei suoi soldati in missione di pace, sì, ma in un teatro di guerra. Le salme, esposte a Roma davanti all’Altare della Patria ricevettero l’omaggio di migliaia e migliaia di cittadini, gente comune. La stampa parlò di un “11 settembre italiano”. La politica, come sempre, si dilungò nelle polemiche, nello scaricabarile delle responsabilità. Si discettò con la stessa foga e lo stesso livello di competenza in materia militare con i quali oggi, in questi tragici giorni di pandemia, il ceto politico si improvvisa esperto di profilassi, di virologia, di igiene pubblica. Si discusse di errori strategici sul piano militare, ma il nocciolo della questione era politico: il nostro Paese non ha la stessa cultura, la stessa attrezzatura e soprattutto le stesse motivazioni degli USA e di altri grandi partners dell’ONU in materia di intervento nei conflitti bellici locali. Imbarcarsi nel pieno di conflitti armati, di una guerra civile come quella che dilagava in Iraq dopo la cruenta eliminazione di Saddam Hussein, volendosi presentare ed effettivamente essere, “soldati dal volto umano”, col fucile a tracolla, pur nella riconoscenza e nel pieno apprezzamento per l’opera di mediazione e assistenza fornita dal nostro contingente, aveva del velleitario. E, come dimostrò l’attentato, esponeva a grandi rischi. I rischi della guerra, cui il Paese non era preparato. In quei luoghi, in quelle circostanze, sarebbe forse servita una forza militare più aggressiva, più muscolare per il controllo del territorio, più blindata nelle proprie postazioni. Ma, per gli italiani, sarebbe stato difficile, così facendo,
convincere l’opinione pubblica che i nostri soldati andavano a costruire la pace, non ad interporsi in una guerra.  Il ricordo è necessario ed è doveroso rinnovare l’omaggio alle vittime della strage di Nassyria. A mio parere, però, bisogna anche fare di questo luttuoso anniversario un’occasione per riflettere sulla perdurante presenza di militari italiani in terre straniere e, più in generale, sulla politica estera italiana. Negli ultimi decenni le forze armate italiane hanno visto moltiplicare la loro presenza in operazioni di peacekeeping in diverse aree del mondo, nella formazione del personale militare e di polizia di altri paesi. Dagli atti della Camera dei Deputati riferiti al 2019 risultano impegnati in 45 missioni militari all’estero, complessivamente, 7 contingenti delle Forze armate italiane, con 7.343 unità. Il continente che vede il maggiore dispiegamento delle nostre forze è l’Asia, con 13 missioni italiane e circa 3.500 uomini distaccati in Libano, Iraq e Afghanistan. Quasi 2.500 soldati sono impiegati in 14 missioni in Europa, soprattutto nelle operazioni di pattugliamento navale nel Mediterraneo Centrale e, a terra, nei Balcani. 18 missioni militari ci vedono impegnati in Africa, con 1.500 unità circa, dislocate soprattutto in Somalia, Libia, Niger e Gibuti. La presenza militare italiana in aree geografiche molto complesse, non è priva di rischi, e non si tratta solo di operazioni formalmente dedicate al mantenimento della pace, ma anche di azioni di contrasto al terrorismo ed all’immigrazione, istruendo le polizie e le istituzioni dei paesi africani da cui hanno origine i flussi migratori. Davvero, e fino a che punto, in tutto questo rileva “la fede nel processo di integrazione europea e nel legame transatlantico, la vocazione mediterranea, la difesa dei diritti umani e delle libertà fondamentali”? I costi per sostenere questo ruolo militare nel mondo sono ingenti ed in continua crescita, nel 2019 sono stati spesi 1 miliardo e 428 milioni di euro, dei quali 1 miliardo e 56 milioni per le missioni, soprattutto quelle più importanti, in Libano, Iraq e Afghanistan, e 372 milioni pei spese generali di supporto. Mentre per la cooperazione internazionale, nello stesso anno, sono stati spesi 514 milioni di euro. Per il 2020 sono stati stanziati 2 miliardi di euro complessivi, il 75% dei quali per le missioni militari e solo il 25% per la cooperazione e lo sviluppo. La politica estera italiana in Africa appare oggi concentrata sugli obiettivi di contrastare i flussi migratori nel Mediterraneo, di contribuire con il supporto militare alla sicurezza delle aree da cui provengono le migrazioni, di cooperare allo sviluppo delle aree più arretrate.
Il governo italiano nel 2019 ha speso in Africa, all’incirca, 330 milioni di euro, cioè quasi nulla rispetto al PIL. Di questi soldi 178 milioni sono andati a missioni militari e di sicurezza (cioè di polizia), sempre contro le immigrazioni. L’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo ha potuto in questi anni contare su un terzo delle risorse totali, intorno ad una media di 150 milioni di euro. Questo significa da una parte che l’incidenza italiana nei grandi scenari internazionali, nel concreto, è irrilevante per la lotta al terrorismo come per ridurre le migrazioni. Dall’altra parte è comunque onerosa per la fiscalità generale la quota di spesa destinata al comparto militare. Invece è molto inferiore la spesa indirizzata verso le attività di cooperazione, quelle, cioè, effettivamente utili per alleviare le condizioni sociali ed economiche che determinano l’emigrazione verso l’Europa e l’Italia. Non desidero discutere, qui, delle politiche contro l’immigrazione “clandestina” (ricordo solo che, con le normative vigenti, un’immigrazione “legale” è praticamente impossibile). Di certo le scelte fin qui operate rendono il famoso “aiutiamoli a casa loro” un vano “flatus vocis”, uno slogan propagandistico. Credo quindi sia sensato e non demagogico chiede con forza al Parlamento ed al Governo italiani un riequilibro nella destinazione delle risorse a favore di azioni mirate allo sviluppo dei paesi poveri rispetto al rifinanziamento delle missioni militari. Anche in tempo di pandemia, anche nel nome dei poveri morti di Nassyria.