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Erika De Santi (WeRoad): Il turismo non può essere un side business

Di
Redazione
|
13 Agosto 2020

Erika De Santi (WeRoad): Il turismo non può essere un side business

Terzo appuntamento con la rubrica “Call Me Startup – Storie di giovani imprenditori ai tempi del Covid-19”. Oggi ci concentriamo su un settore che è stato colpito in maniera particolarmente forte dalla crisi del coronavirus: il turismo.

Questo settore è un asset economico fondamentale per il nostro Paese: nel 2019 ha rappresentato il 13% del PIL, occupando 4,2 milioni di persone, vale a dire il 15% dell’occupazione totale. Inoltre, l’Italia ha il primato europeo di strutture ricettive con un totale di 33 mila esercizi alberghieri e 183 mila esercizi extra-alberghieri.

L’ISTAT stima che, senza la pandemia, ci sarebbero state 81 milioni di presenze nel trimestre marzo-maggio 2020 (il 18% del totale sull’anno), con un ipotetico indotto generato di 9,4 miliardi di euro solamente dai turisti stranieri. Per l’industria turistica le perdite ammontano attualmente a 7,7 miliardi di euro ma per la fine dell’anno si stima una previsione complessiva di perdita del 60% con un calo di 260 milioni di pernottamenti. Sul mercato del lavoro, si stima la perdita di 500.000 posti di lavoro. Gli esperti si aspettano una ripartenza del turismo domestico ma la domanda straniera rimarrà molto bassa. A cascata la crisi del settore turistico avrà ripercussioni sull’indotto, di cui si stima una contrazione di 18 miliardi di euro.

Ne abbiamo discusso con Erika De Santi, che nel 2017 ha fondato WeRoad con Paolo De Nadai e Fabio Bin.

Parte del gruppo OneDay, WeRoad si definisce un love brand nel settore turistico con l’obiettivo di organizzare viaggi ed esperienze indirizzate a un target di late millennials. Gruppi di una decina di persone, travel buddy e una community di appassionati: questi alcuni dei caratteri distintivi di WeRoad, che a oggi ha già raccolto due round di finanziamento per un totale di 2 milioni di euro.

Solo nel 2019 ha portato più di 10.000 persone in viaggio in tutto il mondo, con oltre 100 destinazioni. Inoltre, ha recentemente avviato il suo processo di internazionalizzazione con l’apertura del mercato spagnolo e, prima dello scoppio della crisi Covid-19, l’avvio dei preparativi per l’espansione in Francia e Germania.


  

Cosa hai fatto prima di WeRoad e cosa ti ha spinto a fondarla? 

Parto col dire che io da sempre ho cercato di impostare il mio percorso sia professionale che personale nel mondo del travel. Prima di entrare in WeRoad ho lavorato nel settore delle giftcard in Wishdays, quindi comunque mondo “esperienziale”, diciamo così. Wishdays è stata poi venduta a Smartbox, il principale player a livello mondiale nel settore delle giftbox, e questo fra l’altro mi ha consentito di fare esperienza nell’ambito delle exit, con tutto ciò che esse comportano.

A questo punto mi sono dedicata a un mio progetto nell’ambito del co-living e qui sono entrata in contatto con Paolo De Nadai. In quel momento Paolo stava lanciando proprio il progetto WeRoad e mi ha detto: “Vedi un po’ se questo progetto può funzionare”. Era la prima estate, coi primi viaggi, i beta test e quant’altro. Poi quel progetto è cresciuto e ha spiccato il volo! Sono quegli incontri un po’ fortuiti della vita che ti cambiano a livello professionale e personale.

In particolare come funziona WeRoad?

WeRoad organizza viaggi in giro per il mondo in piccoli gruppi di 8-10 persone, i WeRoaders, accompagnati da un coordinatore che a me piace definire il travel buddy del gruppo. Il tutto è rafforzato dal fatto che le persone che viaggiano insieme appartengono di norma alla stessa fascia d’età: la nostra vision è collegare le culture e le loro storie, così creiamo dei rapporti più duraturi possibili.

Il business model di WeRoad si basa su tre pilastri.

Il primo è quello del tour operating, cioè noi realizziamo il pacchetto mettendo assieme tutti i servizi, dall’albergo fino alla cena. Quindi, a differenza di altri player che si stanno affermando sul mercato e che sono fondamentalmente dei marketplace, ossia prendono i servizi di altri e li rivendono, noi creiamo il prodotto.

Il secondo pilastro sono le nostre digital platform con le quali riusciamo a rivendere direttamente al consumatore finale, al contrario di altri player che normalmente si appoggiano a intermediari o agenzie di viaggio. Con i nostri sviluppatori andiamo a creare e rivendere un pacchetto indirizzato al nostro target di riferimento, i 25-45 anni, quindi i late millennials.

L’altro pilastro fondamentale è un po’ il touchpoint dei precedenti ed è quello della community, che coinvolge sia i WeRoaders, grazie ai viaggi e ai contenuti media, sia i travel buddy, che sono dei veri e propri brand ambassador che provano esperienze e viaggi con noi e ci permettono di incrementare la nostra brand equity.

Ultima cosa che unisce tutto questo è il nostro approccio marketing che è molto particolare: noi diciamo che i nostri ads sono contenuto e il nostro contenuto è il nostro ad, ossia non creiamo pubblicità ma cerchiamo di fare pubblicità tramite il contenuto, in modo ironico, scherzoso e a volte anche un po’ provocatorio e fuori dagli schemi. Uno dei nostri valori è “daring”, osare, quindi nella nostra comunicazione siamo diretti e finanche un po’ sfacciati.

La velocità di esecuzione è il vostro mantra, ad esempio nel 2017 avete lanciato i primi viaggi già due mesi dopo l’avvio della società: come vivi questa grande velocità di crescita?

Mi piace dire che noi siamo l’esempio che è possibile mantenere velocità e struttura in un processo di crescita. La nostra vision, cioè quella di connettere le persone, ci permette di mantenere sempre la direzione anche in tempi più turbolenti come quelli odierni. Ad un rapidissimo scale up noi anteponiamo la creazione di valore per i nostri WeRoaders. Questo è anche quello che ci ha permesso di rimanere al passo con la nostra mission: creare delle esperienze di viaggio degne di essere vissute ma che allo stesso tempo abbiano la forza di riscrivere le regole dell’industria turistica. Il nostro obiettivo è creare un vero e proprio love brand che entri nella vita delle persone.

Una persona viaggia a medio-lungo raggio una o due volte l’anno, ma il nostro obiettivo è essere sempre presenti nella vita dei WeRoader e questo non lo puoi fare senza delle attività che siano presenti nel quotidiano, vuoi con i nostri coordinatori in loco, vuoi con degli aperyroad e con la community che è uno dei nostri pilastri fondanti. È sicuramente una sfida crescere a questo ritmo mantenendo un focus sulla community perché la community stessa cambia nel tempo e cresce.

In questo contesto, come ha impattato il Covid-19, il quale peraltro ha colpito in un momento in cui vi preparavate a consolidare il processo di internazionalizzazione?

Noi abbiamo vissuto, come sono solita dire, prima uno sprint e poi una maratona.

Uno sprint perché all’inizio il nostro focus, così come per ogni tour operator, è stato quello di reagire velocemente alla crisi sanitaria e di rimpatriare i viaggiatori. Ciò è comunque qualcosa che i tour operator sono abituati a gestire perché può sempre succedere l’evento che comporti un ritorno in patria, dall’uragano al terremoto, quindi non abbiamo fatto altro che mettere a scala le nostre competenze di crisis management.

Tuttavia, a differenza di una crisi normale in cui c’è un evento traumatico che però poi finisce, il Covid-19 si è palesato come una vera e propria maratona che non finiva più e che produceva molta incertezza, sia nel travel che in qualsiasi altro settore.

Come tutte le agenzie travel, abbiamo vissuto il periodo delle prenotazioni – che solitamente è quello primaverile – in vero e proprio silenzio stampa, quindi zero prenotazioni. Del resto, lo spostarsi in gruppo a livello internazionale era proprio nella not-to-do-list. Ci siamo inoltre trovati a bloccare l’hiring plan per l’anno e i piani di espansione: stavamo preparando lo scale-up in due countries, Francia e Germania, ma siamo stati relativamente fortunati perché comunque eravamo ancora in un periodo dell’anno in cui potevamo bloccare le attività.

Abbiamo avuto due mesi in cui guardare all’interno dell’azienda per capire di che cosa si poteva fare a meno in termini di investimenti, marketing e altre strutture, minimizzare i costi e cercare di sopravvivere il più a lungo possibile senza ingressi.

Di converso, ora stiamo vivendo invece una recovery in V shape, quindi una ripresa verticale, questo grazie anche al nostro target di millennials che più di altri si adatta a nuove situazioni ed è quindi disposto a scendere a dei compromessi in viaggio. Peraltro con questa crisi abbiamo riscoperto l’Italia perché molte attività all’estero non sono possibili.

Oltre all’Italia siete presenti in Spagna e, come hai appena accennato, avete piani di espansione in Francia e Germania: con quale criterio stabilite le nazioni europee in cui espandere il business di WeRoad?

La scelta della Spagna non è dovuta al fatto che molti italiani vanno in vacanza in quel Paese. Piuttosto, data la nostra mission di connettere persone, culture e storie, abbiamo cercato l’altro Paese europeo che fosse simile al nostro da un punto di vista culturale e di target, anche per capire come si adatta la community e il prodotto turistico alla stessa fascia d’età in un altro Paese.

Partiamo da quello che sentiamo più vicino perché, mentre le operations turistiche sono più facili da scalare, essendo più fredde e distaccate e avendo contatto diretto con la località, l’aspetto legato alla community è più complesso.

Quanto a Francia e Germania, adesso questi due Paesi sono on hold: vediamo come chiudiamo l’estate e poi capiamo come muoverci. In questa fase infatti ci stiamo muovendo mese su mese. Il lancio era previsto ad ottobre, ora vediamo come riusciamo a chiudere l’anno, che per noi finisce appunto a settembre/ottobre: in base a quello definiremo le mosse del prossimo anno.

Che strategie avete implementato per affrontare la crisi e mantenere vivo il purpose di WeRoad?

Partiamo dal presupposto che in generale la gestione della crisi è facilitata dalla preparazione. La gestione della prima fase di una crisi è un lavoro che facciamo costantemente e che ci ha portato a costituire il crisis management team, un team di persone WeRoad e OneDay, la holding di WeRoad che ci ha sostenuto al 100% durante il Covid-19. Il team è specificatamente formato per gestire questo tipo di emergenze, e questo ti permette di mantenere focus e velocità.

Durante il periodo di magra abbiamo lavorato sulla nostra offerta e abbiamo convertito il team di crisi in un team di crescita, andando a ripescare i nostri side projects, ossia i progetti che avevamo lasciato nel cassetto perché, con crescita molto elevata, inevitabilmente ti devi focalizzare solo su alcune cose. Il lancio di questi progetti ha permesso di mantenere un po’ il ritmo e l’hype nonché il contatto con il team.

Quali side projects e che nuovi servizi avete lanciato?

Il primo progetto sono state le giftcard. Le avevamo in cantiere da parecchio tempo e da un punto di vista di business è stato molto interessante perché ha dimostrato che i WeRoaders amano molto il brand: hanno comprato giftcard quando non si sapeva quando saremmo partiti e dove sarebbero partiti.

Un’altra cosa che abbiamo sviluppato è stato l’e-commerce, classica voce che è a business model da parecchio tempo ma che non avevamo mai tempo di fare: volevamo vedere se il contenuto che continuiamo a creare in termini di creatività e comunicazione poteva essere valorizzato anche nel mondo offline.

Altra cosa era ingaggiare la community durante la giornata con experience e simili e per questo abbiamo lanciato gli OffRoad, attività varie che i nostri coordinatori propongono giornalmente. Anche qui è stata un’esperienza molto interessante. È stato un modo per essere presenti e mettere in contatto le nostre communities con quello che si poteva fare.

In generale, come vedi il futuro del turismo?

Con WeRoad abbiamo facilitato un nuovo fermento nell’industria turistica per i late millennials. In tempi di Covid-19 c’è stata una accelerazione di innovazione in ambito turistico: non ho mai visto operatori turistici tradizionali innovarsi negli ultimi vent’anni come hanno fatto negli ultimi quattro mesi di Covid-19. Quindi ha dato un fortissimo scossone all’industria: da un lato è una figata, dall’altra vuol dire più competizione, quindi dobbiamo andare ancora più veloci.

Tirando le somme e comparando WeRoad ad altri grossi player, che vantaggio competitivo avete rispetto alle grosse corporate?

Di sicuro la disponibilità di cassa dipende un po’ dalla fase di crescita della startup e questo può essere killer o non killer. Però è qualcosa che vedi quando scoppia la crisi e capisci in che situazione sei.

Per WeRoad il vantaggio competitivo è stata la velocità di reazione e la capacità di implementare nuovi progetti senza reinventarsi processi perché ciò è parte integrante del nostro DNA e parte integrante dell’essere startup oggigiorno, mentre per una corporate è molto difficile innovare una linea di prodotto.

Noi siamo riusciti nell’arco di due mesi a riscrivere tutto il prodotto. Prima del Covid-19 avevamo oltre 100 itinerari all’estero e solo uno in Italia, adesso abbiamo più di 40 itinerari in Italia, quando per un tour operator classico aprire una nuova destinazione richiede un anno di studi.

A livello normativo, che scenario si è sviluppato in Italia rispetto all’Europa?

Quello che ho visto è semplicemente che in altri Paesi europei (quindi escludendo Italia e Spagna) c’è più facilità di accesso al credito, anche se ovviamente ciò non è legato solo alle startup ma vale per le aziende in genere.

Lato travel ciò che ha salvato gli operatori italiani è stata la possibilità di decidere come rimborsare i clienti, se tramite voucher, rimborsi, posticipi, etc. Questo permette a un’azienda turistica di costruire sul proprio valore, permette di non avere quello che in gergo è chiamato cash out e di sostenere il business. Questa secondo me è stata una singola cosa di grandissimo impatto.

Sul Buono Vacanze invece non abbiamo spinto particolarmente a livello comunicativo perché fondamentalmente non ci conviene, in quanto il nostro pacchetto è un insieme di servizi mentre il Buono Vacanze è spendibile solo per un singolo servizio.

CDP Venture Capital ha investito nella scuola dell’ospitalità, il che dimostra il loro interesse per il settore turistico: cosa ne pensi?

Devo dire che con l’importanza che ricopre il travel per l’Italia mi stupirei del contrario: bisogna continuare a focalizzarsi su questo settore, non vedendolo come un side business, ma prendendo in considerazione tutto l’indotto che genera, che è grossissima parte del PIL Italiano.

Se posso dare un consiglio, suggerirei di fare informazione corretta e di comunicare in modo chiaro le normative che bisogna rispettare. Come imprenditori chiediamo semplicemente chiarezza e velocità decisionale nelle scelte normative, poi sul territorio noi imprenditori siamo forti e ci sappiamo arrangiare, da buoni italiani.

Che esperienze consigli a un giovane che vuole lanciare una startup?

Come prima cosa suggerisco di mettere le mani in pasta fin da subito: forse la cosa più pericolosa per chi vuole essere imprenditore è avere un sacco di idee ma non saperle mettere a terra. Il mantra di Paolo De Nadai è: “Idea is cheap, execution is everything”.

Alla fine la differenza dell’imprenditore è il riuscire a far accadere le cose. Il mio consiglio è: “Prima, durante, dopo gli studi: fare, fare e fare!” Questo serve per capire cosa ci piace, dove possiamo migliorare. Da qualsiasi esperienza, per quanto giusta o sbagliata, bisogna portarsi a casa delle lezioni su noi stessi e su chi vogliamo diventare. Poi se non si è soli ma si hanno dei compagni di viaggio è più divertente ma anche molto più facile mettere a terra il nostro progetto. Perché le cose, soprattutto nelle prime fasi, non sono per nulla facili: si lavora a testa bassa senza vedere risultati certe volte per molto tempo.

 

Andrea Eugenio Ramella

Studi economici all’Università Cattolica di Milano, alla Maastricht University ed esperienze lavorative in startup. In Yezers è Public Affairs Associate e nel founding team di AdVelo.

Samuel Carrara

È scientific project officer presso la Commissione Europea dove si occupa prevalentemente di industrial value chains per le tecnologie low-carbon. In Yezers è membro del board e responsabile editoriale.

Fonte il sole24ore

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Fonte: Da imprese per il turismo