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I PRIMI VENTI ANNI DEL SECOLO

Di
Redazione
|
30 Gennaio 2023

 

Di Roberto Costanzo Gatti

Il XXI secolo nel suo primo ventennio (22 per la verità) ci mostra un netto peggioramento del clima di convivenza, un crollo nella fiducia sulle prospettive e forti domande o meglio dubbi sul nostro futuro. Sovrasta nel senso comune la convinzione che le cose, invece di migliorare, anche se lentamente e con interruzioni, continuino a peggiorare iniettando nelle menti sfiducia, senso di impotenza, rassegnato scetticismo sulla possibilità di invertire la rotta.

Capitol Hill e la rivolta brasiliana segnalano una crisi profonda della democrazia, l’invasione dell’Ucraina fa vacillare la solidità di una pacifica convivenza, le insopportabili spacconate di Nancy Pelosi anticipano un peggioramento sul fronte taiwanese. Inoltre, il surriscaldamento del pianeta minaccia le prospettive di sopravvivenza imponendoci obiettivi che stentiamo a condividere e a realizzare tempestivamente.

Senza entrare in riflessioni ad alto livello partirei elencando una serie di fatti che hanno caratterizzato questo ventennio.

Inizia il 2001 con il fallimento della multinazionale Enron evidenziando la gestione truffaldina di una società  che coinvolge la politica e mette in crisi la credibilità delle società di revisione; nel 2001 a settembre gli attentati alle torri gemelle portano all’estremo la tensione internazionale;  tensione che si concretizza nell’attacco degli USA contro l’Afghanistan; e nel 2003 con l’attacco degli USA contro l’Iraq accusato falsamente da Colin Power di preparare armi di distruzione di massa; nel 2007 il crollo dei mutui subprimes porterà l’anno successivo al fallimento della Lehman Brothers e al crollo dell’economia mondiale sfociata in milioni di licenziamenti di lavoratori in tutto il mondo; la crisi finanziaria costringe i governi ad aiutare le economie ma creando un indebitamento degli stati fonte di ulteriori sacrifici dei governati; scoppia la pandemia Covid e tutti i paesi di ritrovano impreparati ad affrontare le conseguenze anche economiche che incrinano la globalizzazione; nasce il dramma della dipendenza di molti paesi per quel che riguarda l’energia in primis ma che si estende a molte altre critiche materie prime o prodotti quali i semiconduttori; dopo anni si riaffaccia l’inflazione che destabilizza i rapporti internazionali; l’Ucraina e Taiwan, cui abbiamo già accennato, costituiscono una minaccia terribile che rimanda al rischio nucleare, tornato a riattualizzarsi.

La situazione vede incrinarsi la comunicazione, in qualche modo solidale, tra i popoli che si realizzava con la globalizzazione e tende ad acuire l’arroccamento delle due potenze mondiali, USA e Cina, con gli altri paesi che cercano una loro collocazione (India e paesi arabi ma anche sud America) strategica, e la comunità europea che incapace di costruirsi una strategia che ne permetta una funzione autonoma e di riferimento, subisce le manovre strategiche degli imperialismi pagandone le conseguenze in termini economici con gli effetti delle controsanzioni e con una prossima recessione.

Siamo chiari: la recente approvazione da parte degli USA dell’IRA (Inflation Reduction Act), che introduce sussidi all’industria statunitense, aggrava la situazione concorrenziale, già sbilanciata, nella quale l’Europa sta soffrendo nei confronti degli USA con la crisi energetica e con le altre ricadute derivanti dal conflitto ucraino. E’ indubbio che le imprese statunitensi stanno producendo con costi energetici pari ad un quinto di quelli che devono sostenere le imprese europee. L’intervento dello stato che con l’IRA sussidia le imprese rende ancor più ardua la competitività delle imprese europee.

 

 

Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni

Il commissario Gentiloni lancia allora la proposta della riforma degli aiuti di Stato proponendo un fondo sovrano europeo. La proposta costituirebbe un secondo atto politico (dopo quello del NGEU) che rompe una subalternità della politica europea al libero mercato, al liberismo indiscusso. Gli aiuti di stato sono una negazione del libero mercato, ma divengono indispensabili quando gli altri paesi, specie se alleati, fondano la loro concorrenza su simili strumenti. L’Europa se non reagisce alla situazione e non imposta provvedimenti atti a rendere competitive le sue produzioni, rischia di soccombere.

Il fondo sovrano europeo proposto da Gentiloni avrebbe quindi l’obiettivo di consentire ai governi di contrapporre alla concorrenza internazionale, non sempre leale, strumenti che permettano loro di aiutare le proprie economie. Gentiloni, tuttavia, aggiunge che “nelle prossime settimane dovremmo deciderne i contorni” aggiungendo che il nuovo strumento dovrebbe finanziare comuni progetti europei in particolare se conformi alle priorità strategiche dell’Unione.

Gentiloni precisa poi che “Dovremo anche decidere come finanziare questo nuovo fondo” ma anche come conferirlo alle imprese, se sotto forma di prestiti o di sussidi, ribadendo che questo fondo “non deve mettere in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza. Non vogliamo certo creare una economia gestita da burocrati. Sarebbe folle!”.

Ecco, quindi il punto; gli aiuti di stato, che sono una negazione della libera concorrenza, non mettono in dubbio il modello economico europeo basato sulla concorrenza, solo se i fondi erogati lo sono sotto forma di prestito (che quindi devono essere restituiti) o sussidio (che vuol dire a fondo perduto o meglio regalati). Diventerebbero invece una violazione del modello economico europeo se fossero erogati sotto forma di partecipazioni nelle società beneficiarie, facendo quindi del governo (o meglio il contribuente) un socio a tutti gli effetti; ciò sarebbe la follia di una economia gestita da burocrati.

Gentiloni considera quindi Mattei un burocrate a capo dell’AGIP? Siamo seri, è giusta l’analisi di Gentiloni ed interessante la sua proposta di un fondo comune; assurda la sua proposta di come conferire i fondi: pare che seguendo il modello americano si privilegerà la via dei sussidi. Torna quindi in una veste più strutturata la proposta del “campioni europei”

Si sono cioè aperte le porte a una revisione delle regole della concorrenza, rispondendo così alla richiesta presentata in varie occasioni da Francia e Germania per facilitare la nascita di campioni industriali tutti europei, in grado di competere con i concorrenti di Cina e Stati Uniti. La decisione segna un importante raffreddamento nella fiducia nella dottrina della massima concorrenza e de libero mercato, e conferma la volontà di Ursula Von der Leyen di dare seguito alla promessa di una Commissione che difenda gli interessi strategici dell’UE.

Il dossier è fondamentale per il futuro della politica comunitaria. All’epoca del Trattato di Aquisgrana – l’accordo franco-tedesco sottoscritto da Merkel e Macron – passò quasi inosservata l’appendice del Manifesto franco-tedesco per una politica industriale adatta al XXI secolo, un documento dove venne messo nero su bianco la volontà di rendere le aziende europee (in primis francesi e tedesche) capaci di competere con successo, dentro e fuori la UE,  in tutti i settori industriali della competizione globale.

L’obiettivo del manifesto è favorire la creazione di grandi aziende europee in grado di reggere la concorrenza delle multinazionali non europee sostenute (direttamente e indirettamente) dagli apparati statali, in particolare dalle grandi potenze continentali, quindi: Cina, e Stati Uniti su tutti. All’origine del documento presentato da Parigi e Berlino c’è il veto posto dalla Commissione europea al progetto di fusione Alstom-Siemens, l’ambizione di creare un gruppo ferroviario mondiale soffocata dalla solerte applicazione di Margrethe Vestager delle norme antitrust europee. L’idea franco-tedesca era creare un campione europeo capace di tenere testa al colosso statale cinese CRRC, il maggior produttore di veicoli ferroviari del mondo.

La situazione italiana

            Per affrontare il tema della situazione italiana di fronte a questa prospettiva, serve rileggere quanto scrive Paolo Bricco sul Sole 24 ore del 10 gennaio a proposito del problema della dimensione delle nostre imprese. Scrive Bricco “Secondo i calcoli effettuati per il Sole 24 ore dall’economista Sergio De Nardis il potenziale manifatturiero dell’Italia non si è mai ricomposto da allora (dalla crisi del 2008 NdR). Fissando a 100 il parametro dell’anno base 2007, il potenziale manifatturiero italiano continua ad essere nel 2022, sotto di quasi venti punti: per la precisione 81,4 (peraltro in peggioramento rispetto agli 82,9 del 2021). Per essere chiari: non abbiamo recuperato quello che – in termini di capacità produttiva e di tecnologia – abbiamo perduto rispetto a quattordici anni fa.

Ma riandiamo allora, sempre seguendo l’articolo di Bricco, agli anni novanta; anni nei quali si chiusero o privatizzarono “i grandi apparati tecno-industriali di matrice IRI” e le imprese possedute dalle grandi famiglie italiane si ridimensionarono con l’uscita dai business strategici di quelle famiglie storiche del capitalismo italiano convertitesi ad essere “titolari di holding finanziarie di partecipazioni qualche volta industriali, in percettori di dividendi generati da concessioni pubbliche e in clienti di familiy office”.

Tre indici raggelano ogni discussione sullo stato dell’economia del nostro paese: in questo ventennio la produttività è aumentata dello ero per cento e conseguentemente non sono aumentati i salari, anzi sono diminuiti, il nostro PIL attuale è inferiore a quello del 2007. Una situazione del genere presenta una situazione paralizzante del nostro apparato produttivo, paralisi che non viene rimossa neppure dai miliardi regalati alle imprese con i bonus 4.0 Calenda.

In Italia manca la grande impresa e la presenza delle piccole e medie imprese rende impossibile finanziare la ricerca che è il futuro delle economie moderne, relegandoci ad una marginalità che ben difficilmente può vederci protagonisti di progetti pilota, ad essere soggetti appartenenti alla categoria di campioni europei.

Non possiamo però ignorare il progetto di STMicroelectronics.

La Commissione europea ha approvato, ai sensi delle norme dell’UE sugli aiuti di Stato, una misura di aiuto di 292,5 milioni di euro messi a disposizione dall’Italia attraverso il dispositivo per la ripresa e la resilienza a favore di STMicroelectronics per la costruzione di uno stabilimento all’interno della catena di valore dei semiconduttori a Catania (Sicilia). La misura rafforzerà la sicurezza dell’approvvigionamento, la resilienza e la sovranità digitale dell’Europa nelle tecnologie dei semiconduttori, in linea con le ambizioni stabilite nella comunicazione relativa a una normativa sui chip per l’Europa, e contribuirà a realizzare sia la transizione digitale che quella verde.

L’aiuto assumerà la forma di una sovvenzione diretta di 292,5 milioni di euro per sostenere un investimento pari a 730 milioni di euro effettuato da STMicroelectronics per la costruzione di uno stabilimento di wafer di carburo di silicio (SiC) a Catania.

La Commissione ha valutato la misura dell’Italia alla luce delle norme dell’UE sugli aiuti di Stato, in particolare dell’articolo 107, paragrafo 3, lettera c), del trattato sul funzionamento dell’Unione europea (“TFUE”), che permette agli Stati membri di concedere aiuti per agevolare lo sviluppo di talune attività economiche a determinate condizioni, e dei principi enunciati nella comunicazione relativa a una normativa sui chip per l’Europa. Tra le varie clausole approvate dalla Commissione STMicroeletronics ha convenuto di condividere con lo Stato italiano gli eventuali utili aggiuntivi che vanno oltre le attuali aspettative.

Bellissima l’iniziativa, lodevole e lungimirante, quello che non capisco è perché in quell’impresa in cui anch’io contribuente ho messo parte dei 292.5 milioni di €, non ho neppure mezza azione, perché non ne ha lo stato italiano o meglio i contribuenti che hanno sborsato i fondi per l’investimento.

Lo sfruttamento marxiano passa dall’appropriazione di qualche ora di lavoro lavorata in più del lavoro necessario, all’appropriazione dei frutti dei cervelli finanziati i dalla comunità con i loro studi e sfocia nell’appropriazione delle imposte pagate dal mondo del lavoro negando a questo mondo la gestione del loro contributo. Dicesi appropriazione del plusvalore tramite fiscalità fenomeno esaltato anche dalla prima manovra del governo Meloni.