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George Floyd: la violenza, la rabbia, la strumentalizzazione e l’ipocrisia

Di
Redazione
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15 Giugno 2020

George Floyd: la violenza, la rabbia, la strumentalizzazione e l’ipocrisia

di Vittorio Sangiorgi (Direttore del Quotidiano dei contribuenti)


La violenta morte di George Floyd, avvenuta a Minneapolis il 25 maggio, ha riaperto vecchie ferite e riacceso contrasti e contraddizioni sociali mai sopite. Da quei terribili otto minuti, da quella spietata esecuzione si è originato il movimento Blacks Live Matter e sono sorte proteste in tutto il mondo, accompagnate da un intenso dibattito nei media e nell’opinione pubblica.

Una vicenda assai complessa, ricca di implicazioni e sfaccettature, che non può essere affrontata tra banalizzazioni e luoghi comuni di ogni sorta, ma che deve – al contrario – essere analizzata con lucidità e ampiezza di vedute, in nome dell’onestà intellettuale e della verità. Il punto di partenza, ovviamente, è quello della ferma ed assoluta condanna del gesto, a prescindere da tutto: dal “curriculum criminale” di George Floyd, dalla concatenazione di eventi di quella notte, dai vari distinguo che possono essere messi in campo. Perché, all’origine di tutto, c’è una violenza commessa da chi indossa una divisa, c’è un abuso di potere. Violenza e abuso di potere che, purtroppo, sono figlie della società statunitense, di un dominante sistema disvaloriale, di una weltanschauung” che, troppo spesso, porta le Forze dell’Ordine Usa ad agire contro i più elementari diritti dell’essere umano. A fare da contraltare, va detto, ci sono anche la violenza e la criminalità che albergano in larghi strati della società civile, dei comuni cittadini. La violenza “statale” e quella privata, se possiamo così definirle, agiscono insieme, in un circolo vizioso che determina una vera e propria guerra civile.

Questa premessa, a nostro avviso, è fondamentale per inquadrare la vicenda nella complessa realtà sociale, economica e politica degli Sati Uniti d’America, cosa fondamentale per esprimere un giudizio su quanto accaduto. La morte di George Floyd, in queste settimane, è diventata quindi un emblema, il simbolo della violenza della Polizia, e in particolare quella esercitata contro gli afroamericani. La miccia è stata accesa, ed ha determinato l’esplosione di proteste, manifestazioni, rivolte. In tanti, troppi casi, il movimento di protesta è sfociato in una violenza cieca, fine a se stessa e condannabile. Le devastazioni e i saccheggi, infatti, hanno davvero poco a che fare con le legittime rivendicazioni, con la rabbia per la diseguaglianza sociale. Senza contare, poi, che dietro uno spontaneo sollevamento popolare si può intravedere una becera strumentalizzazione, figlia dei tempi e di un cinico calcolo politico. Le uccisioni per mano dei poliziotti, negli Usa, sono sempre avvenute, e i motivi li abbiamo già ricordati. Le uccisioni, anche quelle di cittadini afroamericani, avvenivano anche in passato, anche quando alla Casa Bianca sedevano altri inquilini, anche quando il presidente era Barack Obama.

I dati, raccolti dal portale multimediale Fatal Encounter, che ha classificato e “schedato” le uccisioni delle Forze dell’Ordine dal 2000 ad oggi, raccontano di una crescita più o meno costante e restituiscono una media annuale di circa 1400 vittime, vale a dire quasi 4 al giorno. Anche i dati relativi alle etnie delle vittime, e della loro percentuale rispetto al numero totale, sono sostanzialmente sovrapponibili. Insomma, a dispetto dei toni e dei messaggi veicolati che distiguono, senza alcun dubbio, Trump dai suoi predecessori, i numeri non raccontano una recrudescenza di carattere razziale nelle uccisioni perpetrate dalla polizia. Un’altra analisi numerica può essere condotta sul numero delle vittime in rapporto alle percentuali etniche nella società statunitense, ed è vero che – in quanto minoranza – la media degli afroamericani uccisi è maggiore rispetto a quella di bianchi, ispanici, asiatici e via discorrendo. È parimente vero, però, che il tasso di criminalità e di reati è, generalmente, più alto nella comunità nera. Questo dato, tuttavia, ci riporta a ciò che abbiamo detto in apertura di questo articolo, ovvero che l’origine di tutto sta nella società statunitense, nelle sue contraddizioni, nei suoi mali, in quella tanto sbandierata unità ed identità che, però, non esiste davvero. In parole povere, è logico che, laddove ci sia maggior disagio socio-economico, la delinquenza attecchisca più facilmente. Senza dimenticare, poi, che l’uccisione di neri si impenna in quelle zone della cosiddetta “America profonda”, dove insistono sacche di discriminazione razziale. Entra, a questo punto in gioco, il concetto della strumentalizzazione, quella a nostro avviso operata in queste settimane calde. Una strumentalizzazione che si lega a doppio filo con le imminenti elezioni e che svilisce legittime rivendicazioni.

L’ultima parola chiave per comprendere cosa sta accadendo, quella con cui vogliamo concludere la nostra analisi, è ipocrisia. Quell’ipocrisia che domina in larghi strati dell’opinione pubblica e della politica che avversano l’attuale presidente. Quella che, in questi giorni, ha portato alla “santificazione” di George W. Bush e di Colin Powell, i quali hanno annunciato che non supporteranno Trump nella tornata elettorale di novembre… Vale la pena ricordare, a perenne memoria, che stiamo parlando del presidente e del segretario di stato che, oltre 15 anni fa,  promossero e condussero l’invasione di una nazione sovrana e la conseguente terribile guerra,  giustificandole con quella che si sarebbe rivelata una falsità, ovvero l’esistenza delle celeberrime armi di distruzione di massa. Vale la pena ricordare che, durante la loro amministrazione, le truppe presenti in Iraq si macchiarono di torture ed orrori nel carcere “lager” di Abu Grahib.

Come chiamarla, quindi, se non ipocrisia quella di coloro che incensano, improvvisamente, personaggi che prima avevano, giustamente, condannato?

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Fonte: Editoriali di Quotidiano dei Contribuenti
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