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ESODO COME TRAGEDIA E RIFLESSIONE

Di
Redazione
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22 Gennaio 2021

 In queste settimane la speranza di centinaia di disperati si infrange su un muro crudele di stenti e gelo al confine tra Bosnia e Croazia, in campi spesso improvvisati, autogestiti alla meglio per resistere alle temperature proibitive pur di aprirsi un corridoio verso la  sicurezza e la dignità del vivere

di Fausto Fareri

Il dramma dell’esodo, da una schiavitù all’agognata libertà, è intimo al bacino del Mediterraneo da millenni. La migrazione del popolo di Israele era, insieme alla diaspora, il simbolo dell’uomo in carne ed ossa che spezza catene per ritrovare una dimensione di dignità, fuggendo, muovendosi come può verso la speranza.

Purtroppo in queste settimane la speranza si infrange su un muro crudele di stenti e gelo al confine tra Bosnia e Croazia, in campi spesso improvvisati, autogestiti alla meglio da centinaia di disperati che resistono alle temperature proibitive pur di aprirsi un corridoio di speranza. Container insufficienti, alternanza di ruoli tra Oim e Croce Rossa, molta umanità anche da attivisti bosniaci che non hanno dimenticato il dramma della post- Jugoslavia. Ma questi siriani, turchi, armeni, questo melting-pot di uomini e donne non sono solo dei disperati, sono la sconfitta della nostra Europa. Già da settimane i richiedenti asilo di Camp Lipa, uno dei centri  più rilevanti, hanno attuato lotte resistenti giungendo persino allo sciopero della fame, l’Unione Europea ha stanziato per la emergenza altri 3, 5 milioni di euro e i progetti gestiti dalle principali organizzazioni internazionali( UNHCR, OIM, , Croce Rossa ) hanno già impegnato oltre 50 milioni di euro, nella filiera di assistenza che è la prassi di applicazione della Convenzione Internazionale del 1951 sui rifugiati, siglata a Ginevra il 28 luglio di quell’anno come testo-quadro della materia, riattualizzato con carte e dichiarazioni figlie che hanno sostanzialmente ribadito diritti insopprimibili mutuati dalla Dichiarazione delle Nazioni Unite del ’48. Ma  gli interessi in gioco sullo scacchiere internazionale, le tensioni di redistribuzione, la pandemia uniscono il terrore del vettore pandemico, come focolaio virale – la Croce Rossa in tal senso si prodiga – con il vecchio problema etnico dell’area balcanica, il radicamento di genti da sempre in tensione religiosa, civile, con un risvolto morale e pubblico che non può far altro che indurre ad una spietata riflessione.

Parafrasando Benedetto Croce, se non possiamo non dirci cristiani, la prassi concreta spesso fa emergere contraddizioni, evidenti calcoli politici, trinceramenti e distinguo.  Due principi sono essenziali per la  Convenzione del ’51. L’art. 31 nel quale si ribadisce che coloro i quali soggiornano irregolarmente nello stato ospitante non devono subire illiberali limitazioni o sanzioni penali contro la persistenza della condizione di fuga per motivi di persecuzione dal paese d’origine e implica un obbligo di cooperazione a livelli  istituzionali per agevolare il permesso di entrata anche in un altro Paese firmatario. Altresì l’espulsione è vietata se la riconduzione al confine lo esponga a rischi verso territori che potrebbero perseguitarlo per motivi di ordine razziale o religioso, politico, etnico, art. 33.

Gli obblighi di protezione internazionale nel complesso si  muovono tra maglie istituzionali complesse, anche considerando la congiuntura pandemica, la istruttoria di situazioni personali per il riconoscimento dello stato di rifugiato, l’esposizione sanitaria, che potrebbe essere letta come pericolo evidente per la sicurezza nazionale.

Solo una coerente e massiccia campagna di sensibilizzazione ed un coordinamento tra Nazioni Unite e organizzazioni internazionali, con una redistribuzione coerente ai principi di ricongiungimento familiare e dignità, possono garantire la tenuta del contenimento pandemico e la tragedia migratoria.

Ma mai come in questi frangenti torna il monito biblico, una apertura all’invito all’“Exodus”- uscita-, come cammino di emancipazione e liberazione, alimenatati da una fede civile che è la cultura dell’accogliere.