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Caso Messina Denaro, tra omertà, complicità e indifferenza

Di
Redazione
|
30 Gennaio 2023

di Massimo Veltri*

Ogni qual volta mi sembra di aver trovato una chiave di lettura per sviluppare una traccia di ragionamento mi accorgo che non funziona: può risultare razzista, o assolutoria, o parziale.

Invece la vicenda di Messina Denaro ha tanti fuochi tutti collegati fra di loro, e mette in scena il grande spettacolo italiano che è di scena ininterrottamente dall’unità fino a oggi: un set fatto di morti senza colpevoli, di intrecci fra l’antistato e lo stato, di istituzioni compromesse e di cittadini sempre incolpevoli ma sempre coinvolti.

Entrare in questo spettacolo, in più quadri tutti perfettamente incastrati l’uno con l’altro, scrutarne gli sfondi reali e attardarsi a dipanarne i nodi, presuppone non solo aver digerito fino in fondo la lezione di chi sapeva e conosceva, come Sciascia e Pirandello, Flaiano e Pasolini, ma anche conoscere la storia recente e antica dei nostri territori, mettendosi in gioco in una una tripla sfida. Quella di vedersi etichettato come uno che criminalizza il sud, simmetricamente come colui che leggerebbe nella vicenda l’ennesima dimostrazione di un sud insalvabile, infine come chi denuncia la debolezza e la subalternità delle istituzioni repubblicane in modo disfattista, e l’opportunismo, l’ipocrisia, il marcio come tratti indelebili che segnano le nostre genti.

È una sfida che in ogni caso deve essere accolta, al di là di richiami di responsabilità a circoli massonici più o meno deviati e a ugualmente deviati servizi dello Stato. Non che sia da escludere un ruolo attivo e significativo da parte di costoro nella storia che ha visto il boss dei boss introvabile ma amico di tutti e sotto casa (“E’ stato un errore: ma come, ci hanno mangiato tutti per 30 anni e ora non è più buono?”) a volto scoperto, vaccinarsi ed elargire saluti e baci alla cittadinanza tutta, borghese e popolare, salvo poi decidere di farsi trovare. C’è stato, questo ruolo: certamente, verrebbe da dire, ma se c’è stato ha trovato e si è innestato, anzi, in un tessuto ricettivo e fecondo, quell’identico campo che fece affermare anni or sono a uno dei più prestigiosi leader della sinistra che la mafia non la combatti creando più posti di lavoro: tanto quella, la mafia, offrirà sempre di più. A indigenti e professionisti, aggiungiamo noi.

Che cos’era questa ammissione del dirigente postcomunista, una ammissione di sconfitta, affermare il relativismo della politica, una sollecitazione ad agire nel profondo del corpo sociale, tutto, per invitare prioritariamente alla ricerca e all’affermazione di una griglia di valori che presidino alla costruzione di una società virtuosa?

Ciascuno di noi può optare per la risposta che più delle altre risuoni con le proprie corde: noi, qui, ci limitiamo a segnalare che, accanto ai giusti riconoscimenti per i magistrati e le forze dell’ordine che hanno portato all’arresto del boss, nessuno si è cimentato in questo esercizio, che pure va fatto, non condannando tutti ma non assolvendo nessuno, mostrando alla fine che un’altra strada c’è e che non sa di omertà né tantomeno di complicità, vincendo l’indifferenza.

*Pubblicato su ZoomSud