Oltre cinquant’anni fa, Franco Bricola con un intervento che richiamò l’attenzione della dottrina, delle parti sociali e del legislatore, aprì un vivace dibattito su “il costo del principio societas delinquere non potest nell’attuale dimensione del fenomeno societario”.
La tesi di fondo era che vi fosse un gap tra l’influenza crescente delle persone giuridiche sull’economia e l’apparato sanzionatorio che doveva contrastare sviluppi illeciti: in particolare, il carattere antropomorfico della responsabilità penale (solo la persona fisica può commettere un illecito penale e subirne le sanzioni ad esso legate) aveva contribuito a restringere essenzialmente alle sanzioni civilistiche le conseguenze della mala gestio dell’impresa, con il risultato che il costo dell’illecito commesso (ove accertato) era ridotto ad una componente negativa di cui tener conto in bilancio nel perseguimento della massimizzazione del profitto.
Il rischio per i terzi, la collettività e l’ambiente (implicito in ogni attività produttiva) vedeva un impegno dell’ente non tanto a prevenirlo, quanto a soppesarlo nel rapporto costi/benefici.
Pur con i suoi tempi (e sulla base di precisi inputs comunitari) il legislatore si è fatto carico di un mutamento radicale di prospettiva: ferma restando la responsabilità penale della persona fisica autrice di un reato, la persona giuridica è stata chiamata direttamente a rispondere per l’illecito penale commesso nel suo interesse/vantaggio non come autrice/coautrice del reato, ma per non averne contrastato – dolosamente o colposamente – la commissione anche solo per una “colpa di organizzazione”.
Il riferimento è al D.Lgs. n. 231/2001 che, ormai da oltre 20 anni, consente di assoggettare l’ente ad un procedimento penale diretto ad accertare se all’imputato persona giuridica sia attribuibile una responsabilità “da reato” che trascina con sé sanzioni amministrative di natura pecuniaria e/o interdittiva.
Ferma restando la responsabilità civile per i fatti illeciti commessi da rappresentanti/dirigenti/dipendenti (apicali o non apicali), si affianca un sistema sanzionatorio temibile e non evitabile: le sanzioni irrogate dal giudice penale a seguito di un processo penale non sono condizionalmente sospendibili e, pertanto, vanno ineludibilmente espiate dall’ente.
La condivisibile aspirazione ad una moralizzazione dell’economia e dei suoi protagonisti (si pensi al chiaro disposto dell’art. 41 Cost., anche prima del recente rafforzamento) non ha fatto dimenticare che l’iniziativa economica privata rappresenta un valore per il suo semplice esistere, creando posti di lavoro e rispondendo a precisi bisogni della società (in senso lato), cosicché andava evitata una sanzione capace di colpire soggetti incolpevoli (es., i dipendenti, gli investitori, gli utenti) e di tradursi in un danno sociale superiore a quello prodotto dall’illecito dell’ente.
Il legislatore del 2001 ha immediatamente percepito l’esigenza di conservazione, nei limiti del possibile, del tessuto economico ed ha operato per un trattamento sanzionatorio potenzialmente non distruttivo: si pensi alla figura del commissario giudiziale (art. 15), che consente di evitare all’ente l’interruzione dell’attività legata alla misura/sanzione interdittiva, e al sequestro preventivo di cui all’art. 53, comma 1-bis (introdotto nel 2013), che consente la continuità e lo sviluppo aziendale mediante un controllo giudiziario che non espropria gli organi societari del potere di gestione dell’impresa.
La sanzione che toglie futuro all’azienda e provoca grave pregiudizio alla collettività e rilevanti ripercussioni sui livelli occupazionali va accuratamente evitata, a maggior ragione in un contesto di crisi economica generalizzata e di ridotte opportunità lavorative: l’esigenza di sanzionare l’ente colpevole deve tener conto della difficoltà di far accettare, ad es. al lavoratore che diventa disoccupato, il fatto che un provvedimento giudiziario sopprima il datore di lavoro.
Il superamento del sequestro preventivo impeditivo”, per evitare effetti che potrebbero rivelarsi esiziali per la continuità dell’attività economica dell’ente, è stato recentemente ribadito dalla Suprema Corte mediante l’affermazione del principio secondo cui è possibile consentire il dissequestro parziale di somme al fine di permettere all’ente l’adempimento degli obblighi fiscali e di evitare le conseguenze delle sanzioni amministrative e interessi di mora legati alla mancata estinzione dei debiti verso l’Erario. Con sentenza 11 aprile 2022, n. 13936, la Sezione VI del Supremo Collegio, da un canto, ha evocato il principio di proporzionalità della sanzione, chiarendo che l’eventuale estinzione dell’ente non può essere il risultato di una misura/sanzione che ex lege non vuole (né deve) essere definitiva; dall’altro, ha sottolineato che l’indebito arricchimento cessa con l’adempimento dell’obbligazione tributaria (art. 12-bis, D.Lgs. n. 74/2000); infine, ha opportunamente chiarito che le somme sequestrate non restano nella disponibilità dell’ente per affrontare i normali costi di gestione (pagamento dei fornitori e retribuzione dei dipendenti) perché il poterne disporne è legato alla “stringente condizione” (di dimostrare) di avere adempimenti omettendo i quali possa venir pregiudicata “la stessa continuità nella operatività dell’ente” e di non aver altre risorse (non sequestrate) con le quali fronteggiare le scadenze incombenti o di non poter ricorrere al credito bancario (ipotesi più frequente di quanto non si possa pensare perché la notizia del provvedimento penale e, a fortori, la notizia del sequestro preventivo induce il sistema bancario a chiudere ogni linea di credito).
È possibile che, alla resa dei conti, nella citata sentenza abbia pesato il rilievo che destinatario delle somme, seppur a titolo diverso, era sempre lo Stato, ma interessa rilevare il richiamo ad un approccio il meno devastante possibile per l’ente, che deve subire la sanzione che merita, ma anche evitare la cessazione definitiva dell’esercizio dell’attività, se non ne esistono i presupposti (art. 16, D.Lgs. n. 231/2001), stante l’interesse sociale alla sua continuazione.
Non è interesse di nessuno che il paziente muoia dopo (e per effetto del) l’intervento, anche se l’intervento è – come in questo caso – meramente giudiziario.